giovedì 24 maggio 2018


Carlo SIMONELLI – “Il peso leggero dell’innocenza” (racconto breve)
 

Quando si sentiva triste, la sera si avvicinava al parapetto, vi poggiava le braccia e guardava lontano. La distesa d’acqua, a toccarla con gli occhi era a un centinaio di metri, ma se voleva bagnarsi i piedi doveva scendere da un sentiero, ripido e stretto, che tagliava per le rocce sabbiose, poi per i campi coltivati, e camminare ancora per un pezzo prima di raggiungere la spiaggia. A guardare di sotto, non si vedevano che spuntoni aguzzi, d’un bianco sporco, ma don Felice non ci guardava, perché soffriva di vertigini. Si limitava a pensare ai fatti del giorno, a sua madre, a quel paese dove era stato spedito due anni prima e al sole rosso che gli scuriva il volto non meno dei pensieri. E il cupo peso della vita gli poggiava sulle spalle e premeva fino a lasciarlo senz’aria, un vecchio spirito gli rubava gli sguardi prima che arrivassero a toccare l’orizzonte. 
Quando era partito, tanti s’erano chiesti il perché, e certo i più avevano già una risposta pronta da dare, anche se non tutte uguali, ma nessuno al suo arrivo nella nuova parrocchia s’era fatto domande. I religiosi vanno e vengono secondo la volontà di Dio e dei superiori.
Don Felice non se l’era chiesto, il perché, e forse era l’unico che ne avrebbe avuto il diritto e avrebbe dovuto farlo. Alla comunicazione del trasferimento aveva abbassato il capo, con cristiana accettazione, aveva esitato un attimo prima di aprire bocca, e con un filo di voce aveva chiesto quando doveva partire. Appena si venne a sapere del suo comportamento, per la gente fu tutto chiaro. Non si trasferisce un parroco senza un motivo, bastava semplicemente scavare tra i ricordi e qualche colpa sarebbe venuta fuori. Nei paesi si sa sempre tutto, non ci sono paesi dove si può vivere lasciando tutti all’oscuro di ciò che si fa. E lui faceva. E la gente sapeva. E lui meno faceva e più la gente sapeva.
Li avevano visti uscire dalla parrocchia accaldati e sudati, coi vestiti sgualciti e sporchi, e a volte anche strappati, quei bambini. E da quando avevano imparato ad andare in parrocchia ritornavano sempre più tardi e tra rimproveri e botte raccontavano di aver giocato a pallone o ad acchiapparella. Quando vennero a mancare dei cimeli in chiesa, si sapeva dove erano finiti; in quale stanzino chiuso a chiave; occhi buoni li avevano visti caricati di notte su un’Ape gialla da ombre che bestemmiavano, e portati chissà dove, chissà perché. Tante cose di valore avevano fatto la stessa fine, e quando la famiglia di don Felice cominciò a fare qualche lavoretto in casa pure i più incerti si ricredettero.
Come se non fosse bastato, anche quella ragazza rimasta incinta a sedici anni era stata un colpo a un alveare, uno sciame di dicerie che ronzavano impazzite nell’aria e pungevano a caso chi capitava a tiro, chi si trovava sul proprio mormorio. Era timorata di Dio, certo, e allo Spirito Santo i buoni fedeli erano disposti a credere e ci credevano fermamente quando parlavano di fatti avvenuti per certo solo duemila anni prima, ma al giorno d’oggi poteva essere solo un espediente ingenuo per discolparsi, non poteva essere vero. Soprattutto se lo Spirito Santo, con tanta gente dabbene che c’era in paese, si era presentato alla figlia di Giovannino del Mercato, carpentiere. I sospetti su chi fosse lo Spirito Santo si restringevano a tre o quattro dei dintorni, tra i quali quel don Felice che ogni giorno se la ritrovava nel confessionale, a qualsiasi ora.
Così, quando si seppe la notizia del trasferimento, nessuno si meravigliò. Tutti pensarono che qualche lettera anonima fosse giunta al vescovo, o più d’una, e che finalmente quel sant’uomo aveva fatto il dovere del suo ministero. Sissignore, era ora!
Non s’era mai abituato alla nuova parrocchia e non aveva mai legato con i nuovi parrocchiani, non che fossero cattivi, ma era lui che li teneva a distanza, l’esperienza gli aveva insegnato che l’uomo è malvagio, nel suo corpo vi si annida il demonio e per non farsi tentare e sbranare bisogna tenerlo a distanza, e lui così faceva col bastone dell’indifferenza, che tirava fuori ogni volta che qualcuno tentava di avvicinarsi troppo ai suoi sentimenti. Quando si cercava di guardargli nel fondo dell’animo.
A mettergli ancora più tristezza era sua madre, malata, e lui sapeva che pur raccontando in giro della fortuna che le era capitata di avere un figlio con la vocazione avrebbe voluto dei nipoti e non ritrovarsi la casa vuota e sbiadita, dove nuvolette di polvere galleggiavano a mezz’aria tagliate dai raggi di sole che penetravano dalle finestre, stanze vuote restituivano l’eco di una sterile vita di privazioni, nella quale si sentiva da anni puzzo di morte.
Un giorno, mentre era in canonica squillò il telefono. Era la moglie di Giovannino del Mercato che lo pregava di battezzare suo nipote, che avrebbero voluto che fosse proprio lui a farlo, perché lo conoscevano e il nuovo parroco era di un’altra pasta, superficiale per le cose dell’anima, aveva sì la vocazione, questo non lo metteva in dubbio, ma voleva farlo da lui questo battesimo. A don Felice parve strano, ma non seppe dire di no.
Il bambino era appeso al petto della giovane madre, tutta vestita di bianco come una sposa. I parenti occupavano due file di panche e si riconoscevano dai vestiti pacchiani e le facce rosse di vino e di fatica. Quando l’acqua gli bagnò la fronte, il neonato cominciò a strillare e piangere.
Fu allora che don Felice alzò gli occhi e incrociò lo sguardo con quello severo di un uomo che gli sembrava di conoscere, ma non riusciva a ricordare chi fosse. E più cercava di legare quella faccia a un nome, a un’esistenza, e più gli si annebbiava la mente, si cancellavano i ricordi, gli si sovrapponevano. Le nuvole che aveva visto la sera prima si addensavano, presto sarebbe venuta la pioggia. Il vento gli soffiava parole che non riusciva a sentire, che si confondevano l’un l’altra, in un turbine rumoroso si univano e lo avvinghiavano in spire strette che gli facevano perdere il fiato.
Dopo un breve capogiro si era accorto, così, che tutti lo stavano fissando, che i fedeli si aspettavano che dicesse qualcosa. S’era interrotto nel mezzo di una frase e dalle navate attendevano che continuasse, ma non sapeva cosa avesse detto prima e dove fosse rimasto. A pensarci bene, non gli veniva in mente nemmeno chi potesse essere quella bianca sposa al suo fianco, quel tenero frutto mondo tra le braccia, tutte quelle bocche aperte che aspettavano una parola. E il turbine riprendeva e lo sballottava nell’immensa confusione di ricordi mai avuti, di cose mai fatte, nei cattivi pensieri del mondo. Ma l’uomo continuava a fissarlo, più degli altri, lo teneva in suo potere, un potere maligno, mentre la sua mano a mezz’aria ancora lasciava cadere un rivolo d’acqua sulla creatura, finiva per terra, bagnava il marmo consunto dai secoli.
Fu in quel momento che don Felice, guardando il bambino, pensò a sua madre, la sua stessa testa liscia dai pochi capelli bruciati, il dolore e il pianto incontrollato, la fatica della malattia che le consumava ogni giorno le ossa, bianchi gessetti che non lasciavano traccia sulla lavagna di una vita, e la polvere che frullava a un raggio di sole posato sul tabernacolo. L’uomo era a un passo, e lo fulminava, stava di fronte come lo Spirito Santo, in mezzo ai crocifissi e alle madonne, all’odore acre d’incenso bruciato. Si aspettava, come gli altri, una sua parola che non voleva uscire, e forse non era altro che l’afonia dell’intera esistenza.
Lasciò cadere quello che aveva in mano e si mosse piano lungo le panche della navata seguito da occhi fermi e bocche aperte. Spinse il pesante portone di legno e uscì sulla piazza di fronte alla chiesa. Camminò per un centinaio di metri fino alla balaustrata, appoggiò le braccia e guardò lontano, dove le nuvole azzurre si abbracciavano e confondevano; pioveva adesso, lì in mezzo al mare, presto la tempesta sarebbe arrivata , portata dal vento, avrebbe lavato la polvere dalle strade, ma alla prima schiarita sarebbero state di nuovo sporche, nessuna pioggia può nettare dal male del mondo, nessun fuoco estirpare le colpe incerte, dietro di lui la gente era uscita silenziosa dalla chiesa e gli faceva da seguito, tenendosi a distanza.
Don Felice s’arrampicò sul parapetto come un angelo nero che sembrava ancora più scuro di quando era al fianco di quella madonna col bambino in braccio, alzò le mani al cielo, e gettato un grido in un momento scomparve di sotto, andando a finire tra le rocce che adesso s’erano tinte anche di rosso. 


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Ama, ama follemente, ama più che puoi,

e se ti dicono che è peccato,

ama il tuo peccato e sarai innocente.

William Shakespeare

 

La short story di Carlo Simonelli, emblematica nella struttura espressiva del piano referenziale del contenuto, lo è ancor più in un’aura ricca di rigore semiologico, nel senso che dal cliché elaborato dallo scrittore scaturisce una sorta di prosa dal pathos “lirico”. Il brano risulta impegnato a centrare l’obiettivo di enfatizzare il margine di segreto e mistero da cogliere al di là e dentro l’interiorità della psiche, la natura e le cose stesse. Ottiene lo scopo mirando, tra segni e segnali accurati, a sublimare la soglia delle scelte di coscienza in un resoconto di fatti in sé sufficiente, se non rinvia – per raggiungere la comprensione – proprio a emozionalità o a sentimenti fondamentali, comunque non soggetti a trasformarsi in dati univoci.
Nella trama di Simonelli, ho ritenuto stimolante l’impulso di associare la figura principale di don Felice - sebbene in un salto utopico di centinaia di anni - al mitico Parroco (The Parson), voce del racconto conclusivo dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (1387 circa). Spiegando la dinamica del peccato originale, l’uomo di chiesa chauceriano afferma: «Si può, dunque, vedere che è peccato mortale disporre, prima di tutto, del suggerimento del demonio, qui rappresentato dal “rettile”; poi dal piacere della carne, qui rappresentato da Eva; infine, il consenso della ragione qui rappresentato da Adamo».
Dopo aver chiarito, però, come il gesto oltraggioso annunciasse un capovolgimento totale della legge di Dio, è specificato quanto, pur essendo la ratio umana causa dello scivolamento nell’abisso peccaminoso - avendo privilegiato la libido carnale (e, in futuro, amorosa) dietro la spinta di Satana - né il corpo medesimo, né la volontà di trasgredire fossero gli autentici fautori della Caduta nel dolore della colpa. Piuttosto, a rivelarsi responsabile era stata un’inquietante tipologia di giudizio – nel reale concreto legata da una parte all’animo, allo spirito, dall’altra al raziocinio – perché ribelle a regole orientate ad alterarne la matrice intima e indifferenziata. In un tale ambito associativo attualizzato nei secoli, emerge un accattivante mosaico significativo di essere-apparire, di virtù e infamia.
Nelle ricerche della semantica moderna e in particolare nei settori dedicati allo strumento comunicativo letterario (ossia, la semiotica), più volte gli studiosi hanno attestato quanto la verità non consista altro se non in un effetto del senso, e la sua qualità accreditata coincida, nell’esercizio di chi la sostiene (in questo caso “narrandola”), con il rendere plausibile qualcosa e non il contrario: nel costruire, appunto, un discorso alternato tra il non “dire” vero, ma “far sembrare” vero il messaggio.
Nella storia di don Felice così illustrata, il meccanismo ermeneutico del plot è abilmente intrecciato con il point of view del protagonista, implicati a tutelare un intenso dato ulteriore di riserbo e ritegno nei confronti della presunta realtà evocata. La “natura” avanza, pertanto, tra esattezza e falsità nell’esperienza vissuta dal main character, il sacerdote Ministro del Culto Cattolico, nell’esserci del paesaggio e nelle presenze umane, “naturalizzate” nell’ordine di come vanno le cose in numerosi ambienti, in determinati tempi. Il racconto di Simonelli è paragonabile ad alcuni statuti semantici considerati da Umberto Eco, dove è sviluppata «una situazione in cui» esistono «molti fattori componenziali per un solo significante, che lo connettano a diverse posizioni in diversi campi».
In altri termini, ne Il peso leggero dell’innocenza domina un gioco di spostamenti plurimi di significati o eventualità da accreditare, in modo da favorire «vari percorsi di lettura con una competenza generalizzata» capace di coincidere, cioè, con la somma di “competenze” individuali, fonte e frutto di una convenzione, di una norma collettiva. Quale? Di sicuro quella di una morale a difesa della vita, della natura, magari potenziata da un nostro fare interpretativo basato su vicende in scala non del tutto conoscitiva (informativa), bensì di tipo fiduciario. In ultimo, lo scarto di verità e certezza ottenuto dall’autore varca l’orizzonte dell’ineluttabile ostacolo da superare per amare ed essere amati con purezza, rispetto e devozione.
L’interrompersi del colloquio con Dio, la fine dell’esistenza terrena di Don Felice, sono precedute dall’apparizione – soltanto agli occhi del sacerdote – di un uomo lì a un passo, che «lo fulminava, stava di fronte come lo Spirito Santo, oppure in mezzo ai crocifissi e alle madonne, all’odore acre d’incenso bruciato»; e dalla camminata «per un centinaio di metri fino alla balaustrata», simile a un «angelo nero», un indemoniato, un peccatore, oppure a un disperato accanto alla «madonna col bambino in braccio». Chissà, per azzardare qualsiasi ipotesi degna di fede condivisa è necessario, lo accennavo prima, gestire una convenzione “collettiva”. E Carlo Simonelli invita, con una simbologia letteraria assai personalizzata, a costruirla. (c.b.)

4 commenti:

  1. Non nascondo che il racconto di questa settimana mi mette in seria difficoltà, tanti e tali sono le possibili interpretazioni di una vicenda dalla trama “equivoca e drammatica “ come l’ha definita Cinzia Baldazzi nella sua recensione. Provo a organizzare delle idee anche se seguire un filo logico mi è quasi impossibile. Dunque, c’è un prete che viene trasferito da una parrocchia ad un’altra, senza apparente motivazione. Ma la motivazione esiste per i suoi parrocchiani che, anzi, ne individuano più di una; lo capiamo dal riferimento a quei bambini che tornavano dalla parrocchia sempre più tardi, a quella ragazza che si ritrova a portare in grembo un figlio di cui non si conosce il padre, al furto di cimeli sacri. E qui sorge il primo interrogativo: ci sono reali elementi di colpevolezza nel comportamento del religioso o tali elementi affiorano anche al di là della nostra volontà perché in un paese, di diceria in diceria, si finisce per creare il “ mostro” dove non ce n’è neppure l’ombra? Oggi questo avviene frequentemente “grazie” al megafono dei mass- media, ma poiché lo svolgersi del racconto non è ancorato ad un contesto storico e temporale preciso, è possibile che le presunte colpe del parroco fossero proprio un parto della fantasia morbosa e malata dei parrocchiani ( non ci sarebbe di che stupirsi vista la mediocrità del parrocchiano medio).
    Poi mi balena nella mente un secondo interrogativo: perché il protagonista ha una visione così cupa e funerea dell’esistenza (e qui va sottolineata la capacità dell’autore di connotare molto efficacemente uno stato d’animo in cui si mescolano senso d’impotenza, triste rassegnazione e presentimenti di una minaccia incombente, attraverso la descrizione del personaggio e di elementi naturali che potrebbero avere ben altra valenza)? Un religioso non dovrebbe essere felice per il solo fatto di credere che la vita sia un dono di Dio?
    E infine: chi è l’uomo misterioso che guarda severamente e sembra avvolgere tutta la scena in un filo scuro e foriero di sventura?
    Si potrebbe identificarlo in due modi: potrebbe essere il simulacro di una coscienza sporca che assume un significato compiuto e prepotente nel momento in cui il parroco si trova accanto la giovinetta col suo piccolino da battezzare, e in ugual misura, l’incarnazione di una catena lunghissima di momenti di infelicità divenuta così pesante da poter essere spezzata solo da un gesto estremo.
    Un’ultima possibilità: che l’autore abbia volutamente ordire una trama così particolare , in cui è forte il significante ma enigmatico il significato proprio per lasciare al lettore la più ampia facoltà di interpretazione, per condurlo al pirandelliano”così è , se vi pare”.

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    1. Grazie per l'interpretazione, che segue un senso logico, ricercando gli elementi esplicativi, che però sono ineffabili, ma che sembrano condurre a interpretazioni diverse. Le tue riflessioni sono molto interessanti, le ho lette con piacere. Grazie

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  2. E' un racconto drammaticamente bello, che si presta a molteplici interpretazioni. Complimenti vivissimi.

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