giovedì 31 maggio 2018


Diego RIA – “Odore di Margherita” (racconto breve)

 
Carlo riconobbe subito quel profumo. Gli entrò nel naso come un vento tropicale e, con la velocità del fulmine, gli strinse cuore e stomaco in una morsa calda. Le sue guance avvamparono, erano otto mesi che non sapeva niente di lei, e ora era lì, nell'aria intorno a lui. Posò la tazza che stava tenendo vicino alle labbra e si voltò lentamente. Trasse un respiro, per orientarsi tra la decina di tavoli di quel caffè e vide, a tre passi da lui, la fonte di quell'inconfondibile misto di patchouli, vetiver e chissà cosa che dominava ogni sua immaginazione emotiva.
Lei era di spalle, con la chioma di capelli castani un po' più lunga di quel che ricordava e un vestito molto più appariscente di quelli con cui l'aveva vista al bar, da lui. L'uomo che le stava davanti aveva un'aria scanzonata e affascinante e parlava svelto mentre, con la mano, dondolava il bicchiere. Lui non l'aveva mai visto. Margherita era solita scendere per pranzo con Maria e altre due impiegate delle assicurazioni Pegaso. Si erano sedute allo stesso tavolino per un anno intero, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, alle 13.15 in punto, e per tutto quel tempo Carlo le aveva servite col cuore in gola, immergendosi un passo alla volta nell'odore di lei, fino a venirne completamente dominato. Era una fragranza particolare, non del tutto femminile con quelle note legnose e muschiate, ma aveva qualcosa di sfuggevolmente dolce e, soprattutto, emanava da lei.
Carlo se n'era innamorato a prima vista, il giorno stesso in cui l'aveva vista entrare. Conosceva già Maria e, quando gli presentò la nuova collega, rimase immobile a balbettare un tanto piacere. Non era mai riuscito a scambiare due parole con Margherita. Né lei né le altre due parlavano mai con Carlo, al di là dell'ordinazione, solo Maria gli buttava lì due domande quando si spostavano al bancone per il caffè. Un ottimo caffè. Carlo era un grandissimo barista. Col suo olfatto riusciva a distinguere le varie miscele e coglieva anche la minima nota di bruciato ma, quando si avvicinava Margherita, quell'odore improbabile e pungente lo catturava e continuava a stazionare nella sua testa per ore.
Carlo sapeva di non essere brillante con l'altro sesso, ma l'attrazione per lei era cosi forte che, quando le vedeva entrare e sedersi, lasciava il bancone per precipitarsi al loro tavolo e si posizionava sempre all'angolo tra Maria e Margherita per segnare l'ordine, in modo da inebriarsi e lasciarsi compenetrare dall'unica cosa che poteva avere a lei: il suo odore. Si era convinto di avere un legame con quella donna, come se quella fragranza fosse un filo invisibile che li aveva uniti e folgorati anche nella lontananza o nell'indifferenza. Cercava anche di migliorarlo quell'odore che, in fondo, non si adattava bene alla bellezza di lei. Provava a ornare il tavolo al quale si sarebbe seduta con diversi tipi di fiori profumati, oppure aggiungeva del basilico o della menta fresca nell'insalata che, di solito, lei prendeva, ma i suoi tentativi erano inutili: la fragranza dura e vagamente dolce che pervadeva il corpo di Margherita dissolveva con noncuranza i suoi tentativi di modificarla.
Quando aveva del tempo libero, girava per le profumerie e chiedeva di provare i prodotti più strani nella speranza di riuscire a imbattersi nell'essenza della sua amata. Sognava di immergersi in quel profumo e di pararsi di fronte a lei, credeva che la consonanza di odori avrebbe attivato una sorta di estro animale. Grazie al suo olfatto era riuscito a riconoscere e isolare le tonalità principali di quella fragranza, ma alcune delle note minori ancora gli sfuggivano per comporre il tutto.
Un giorno, poi, Margherita non si era presentata a pranzo. Maria e le altre due parlavano concitate al tavolo ma, quando Carlo si avvicinava per servirle, abbassavano il tono e aspettavano che se ne andasse per ricominciare. Lui non ci aveva fatto troppo caso, Margherita era mancata altre volte, per piccoli malanni o per ferie, ma poi era sempre riapparsa e il suo odore era riapparso con lei. Quella volta però non tornò. Passarono i giorni, poi una, due settimane e, quando Maria e le altre si presentarono a pranzo con una nuova collega, Carlo capì che era finita, che quell'odoroso filo immaginario che l'aveva unito in devoto e cieco amore con la sua adorata Margherita era stato spazzato via da un qualche tipo di tempesta di cui non trovò mai il coraggio di chiedere a Maria.
Ma ora lei era lì. Il destino aveva distribuito un altro giro di carte e Carlo aveva pescato un jolly. Annusò ancora l'aria, come a godersi la conferma di quello che sapeva benissimo e, incurante di tutto, si avvicinò alla coppia chiamando ad alta voce Margherita. La donna si voltò, sgranò gli occhi e sbatté furente il tovagliolo che aveva in mano sul tavolo. L'uomo allungò un braccio per trattenerla e con voce supplicante le disse: «Amore, ti prego».
Poi lanciò uno sguardo severo a Carlo. «Lei chi diavolo è?» sibilò.
Carlo era perplesso. Guardò meglio la sconosciuta e si grattò il mento. L'aria era pervasa dall'odore di Margherita ma lei non c'era.
«Insomma, che vuole?» disse l'uomo spazientito, tenendo sempre una mano sul braccio della donna, come per proteggerla e trattenerla allo stesso tempo, mentre gli occhi di lei iniziavano a inumidirsi.
Carlo si voltò verso l'uomo e credette di capire. Quel profumo arrivava da lui, non da lei. La fonte originale di quella fragranza doveva essere quel tipo brizzolato e distinto che lo guardava con occhi fiammeggianti, infatti calzava a pennello alla sua raffinata figura. In un baleno la storia fu chiara e, incurante della sofferenza che stava evidentemente causando con quell'intrusione, Carlo chiese: «Dov'è Margherita?».
La donna si liberò con uno strattone e corse fuori dal locale coprendosi il volto. L'uomo si alzò di scatto e afferrò Carlo per il bavero della camicia: «Allora, chi sei?».
«Lavori alle Pegaso? » chiese Carlo. Non aveva paura, non provava niente. Voleva solo Margherita.
«Le Pegaso sono mie, imbecille», rispose lui lasciandolo. «Ma se credi di ricattarmi... Mia moglie sa tutto e stiamo cercando...».
«Voglio solo sapere dov'è Margherita», lo interruppe Carlo. Non gli fregava niente di quell'uomo, del suo matrimonio, del modo in cui aveva profumato Margherita. La sua mente aveva già cancellato tutto. Lui voleva solo ritrovare il suo amore. L'uomo soppesò la situazione per un istante, temeva una scenata e in quel locale era troppo conosciuto per potersela permettere: «Abbiamo deciso che era meglio trasferirla in un'altra filiale. Via Battelli, quartieri nord», aggiunse per anticipare la nuova domanda. Poi si voltò per seguire la moglie, ma la voce di Carlo lo fermò: «Un'ultima cosa. Come si chiama il tuo profumo?».
«Cosa?».
«Il profumo che porti addosso. Come si chiama?».
«Tu sei matto».
«L'ho cercato in ogni profumeria della città. Dove lo prendi?».
L'uomo valutò nuovamente la situazione. Gli avvenimenti dell'ultimo periodo l'avevano reso meno impulsivo: «Si chiama Notti d'Oriente. Non si trova nelle profumerie, me lo faccio spedire direttamente a casa. E ora sparisci».
Il giorno seguente Carlo si piazzò su una panchina di via Battelli, tra la filiale delle assicurazioni Pegaso e il bar pranzi veloci più vicino. Aveva preso un giorno di ferie tutto per Margherita e, infine, lei era uscita da quel portone, alle 13.10 in punto e si era avviata proprio nella sua direzione. Quando fu a un metro, lui si alzò e le si parò davanti.
«Margherita», disse.
Lei ebbe un moto di sorpresa ma, guardandolo nel volto, lo riconobbe. Si rese conto di non ricordare il suo nome, così tossicchiò, sorrise e disse: «Oh, ciao. Che ci fai da queste parti?».
«Sono qui per te», rispose Carlo inspirando forte.
Margherita si portò un braccio al petto e fece un passo indietro. Carlo chiuse gli occhi, l'aroma caldo e floreale della donna gli entrò nei polmoni. Lo sentì risalire lungo le vene, per tutti gli arti, fino alle appendici. Lo sentì familiare, rassicurante. Così calzante alla figura diafana e slanciata di lei da infondergli pace e coraggio.
«Volevo sapere di cosa odori veramente», le disse.
Lei soffiò via un sorriso perplesso: «Cosa?».
«In fondo al cuore, ero certo che non potevi sapere di Notti d'Oriente».
Margherita sgranò leggermente gli occhi, si perse qualche secondo tra i propri pensieri e lasciò ricadere il braccio lungo il corpo. «Odoro di stupida, probabilmente», disse.
«No», disse lui, fissandola intensamente. «Odori di violetta, calla, quasi certamente lillà e un'altra cosa che ora non mi viene proprio».
Lei sorrise: «Ed è un buon odore?».
«Il migliore che abbia mai sentito. Anche più di una 100% arabica tostata lentamente a mano».
«Sembra un complimento» disse piano lei.
«Si, lo è», rispose Carlo guardandosi la punta dei piedi. «Ma andiamo», continuò indicando il vicino bar: «La tua insalata». E si avviò verso il locale.
Margherita guardò quello strano tipo camminare verso il bar con le mani in tasca. Si sforzò un'altra volta di ricordarne il nome ma non le veniva proprio. Si ricordò di non aver mai scambiato una parola con lui e non capiva bene cosa volesse, cosa stesse succedendo. Lo vide raggiungere l'ingresso del bar, voltarsi e chiamarla con un ampio gesto della mano.
«Sì, arrivo», gli urlò Margherita. Appena lo vide entrare nel locale, si guardò attorno per assicurarsi che nessuno la stesse guardando, si portò il polso al naso e annusò forte. Poi rise di quella sciocchezza, lei profumava di fiori e non aveva niente di cui vergognarsi. Guardò il cielo sereno, aprì le braccia per allargare i polmoni e inspirò l'azzurro di quella stupenda giornata ed era come se l'aria tersa dilavasse via lentamente dalla sua coscienza la sciocca, l'ingenua, la puttana che l'avevano tormentata negli ultimi mesi e le restituisse una pura e semplice Margherita. E si sentì felice, la prima volta da molti, molti giorni. Si sentì giusta, pulita, profumata. La testa di Carlo fece capolino dall'ingresso del bar. «Margherita», chiamò. «Vieni».
Dovrò chiedergli come si chiama, pensò Margherita, e continuò a respirare il cielo. 
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(c.b.) «Carlo riconobbe subito quel profumo. […] Trasse un respiro, per orientarsi tra la decina di tavoli di quel caffè e vide, a tre passi da lui, la fonte di quell'inconfondibile misto di patchouli, vetiver e chissà cosa che dominava ogni sua immaginazione emotiva». È l’esordio della storia di Diego Ria, nella quale il protagonista, per riuscire a individuare la provenienza dell’essenza odorosa di una donna “desiderata”, assente da tempo (da riscontrare, in schemi favolistici classici, nell’allontanamento volontario dell’eroe e forzato della vittima, dal “rifugio” o “Castello-casa”, altrimenti dal “valore amato”), suscita tematicamente il leitmotiv dell’avventura condivisa con noi. Pur conoscendone, infatti, e descrivendone nel dettaglio la natura, per consentire di rintracciarla vuole spostare il clou dell’obiettivo dell’indagine, tentando, invece, di scovarlo “orientandosi” in un ambito ampliato della sua possibile “ricomparsa”.
In un parallelo di indirizzo utopico (nonostante ben documentato in scala operativa), vorrei allargare in matrice maieutica il consiglio investigativo del personaggio di Ria al campo della detection critica, al fine di decifrare il contenuto globale tipico del racconto: essendo stata sempre, del resto, una fautrice convinta di metodologie ermeneutiche legate all’espansione dell’orizzonte di riferimento poetico. Nell’esegesi di un brano di prosa o poesia, infatti, per interpretarli reputo molto utile identificare o segnalare citazioni esterne da paragonare al contesto. Sono d’accordo con il grande Mario Fubini su come, adottando un simile prezioso mezzo chiarificatore, nessun accorgimento o parafrasi di scrittura riesca in tal modo, né intenda, fissare nella mente del destinatario un alter-ego esaustivo dell’effettiva opera considerata: con precisi meccanismi stilistici, le medesime “citazioni interne” e, in questo caso, con l’onda lunga del profumo irripetibile del relativo costrutto evocativo, insomma il complesso poetico concreto formulato in primis dall’autore.
Eppure, nella dinamica di percezione del messaggio, i ricercatori delle maggiori scuole critiche ritengono proficuo in campo strumentale favorire una pratica equivalente. Come, ad esempio, accogliendo l’affascinante mosaico tecnico-espressivo incrementato da Diego Ria, risulta adeguato confrontarne lo sviluppo semiotico con la semantica delle fiabe popolari e tradizionali russe studiate dal linguista e antropologo Vladimir Propp; in particolare, usufruendo dell’approfondimento ulteriore compiuto nel repertorio (o meglio sulla logica di possibilità narrativa in esso inserita) da Claude Bremond, saggista e semiologo contemporaneo.
Quindi, in virtù della salda efficacia dell’itinerario di lettura delineato da Odore di margherita, tra significanti e significati di fragranza e aroma, vaghiamo dentro e fuori l’articolata mini-detective story di Carlo e Margherita, rigorosa nell’offrire piste indagative, veritiere e ingannatrici, unite dallo scorcio di un ipotetico e prossimo status finale. Otteniamo così l’esito - per noi, prima che per altri - di scoprire, con lo sguardo limpido di un arco empirico potenziato da testi differenti ma coerenti, la sfera più vasta di un certo stile di vita della personale esperienza etica e sociale: attiva e inquietante nel topos del bar dove lavora Carlo e, di solito, consumano il pranzo le dipendenti e il manager della compagnia assicurativa Pegaso.
Ne scaturisce un’umanità resa in chiave realistica e poi sublimata in veicolo (semi-conscio o volontario) del complesso polisemantico del profumo, elemento essenziale della coesione narratologica costruita da lessico e piano referenziale. Seguendo, infatti, la griglia di regole di simulazione e dissimulazione intessuta da Bremond nell’analisi dei parametri delle antiche civiltà elette a prototipo, l’input della vicenda di Diego Ria consisterebbe nello sbaglio dell’eroe, qui commesso dal giovane cameriere scambiando l’identità della persona “portatrice” dell’aroma preferito: dunque, il tenace paladino di tale coinvolgente circuito cognitivo di “svelamento” sembra investire con attinenza un incarico consono a quello centrale del microcosmo russo, non per questo trascurando il valore unico dell’individuum di cui è frutto inedito. L’allusione all’antico repertorio è quando il protagonista, essendo stato “colpito da cecità” - nel nostro caso sostituita nel senso dell’olfatto fallace - era costretto a subirne le gravi ripercussioni. Doveva, pertanto, affrontare un tragitto denso di travagli, al fine di sanare l’equivoco iniziale (fugandolo con estro e coraggio fisico o d’animo) per discernere le tracce in grado di ricondurlo alla fanciulla smarrita. L’“aiutante” nell’impresa sarà, però, lo stesso “oggetto magico”, la fragranza inebriante: dalla coincidenza dei ruoli canonici emergerà una sorta di intrigo avvincente.
Del resto, la Margherita del racconto moderno è autrice, da parte sua, di un misfatto, sarebbe a dire l’aver espletato una specie di inadempienza o mancanza di lealtà pertinente  alle categorie universali del comportamento umano, perché divenuta l’amante del capufficio (un uomo sposato) tra le pagine della story. Per proprio conto estingue in ciò, da succube a trasgressore, un castigo simboleggiato dalle malelingue che la stimano una «sciocca, ingenua puttana». Ed ecco Diego Ria decidere di impiegare una variante assai ricca di trascinanti prospettive, scegliendo di scartare il peggioramento del danno da riscattare con il promuovere una nuova fase di riparazione alle pesanti conseguenze: evitando quindi la più probabile, cioè la vendetta, spesso realizzata dalle vittime (Carlo e la moglie tradita).  
Cosa succede, allora? Il narratore inaugura, con il personaggio principale, un iter alimentato da modalità di miglioramento, rappresentate dall’occasione, per i presunti colpevoli della disobbedienza, di guarire. Nell’intervallo conclusivo della trama-intreccio leggiamo, appunto: «“Sì, arrivo”, gli urlò Margherita. Appena lo vide entrare nel locale, si guardò attorno per assicurarsi che nessuno la stesse guardando, si portò il polso al naso e annusò forte. Poi rise di quella sciocchezza, lei profumava di fiori e non aveva niente di cui vergognarsi. Guardò il cielo sereno, aprì le braccia per allargare i polmoni e inspirò l'azzurro di quella stupenda giornata ed era come se l'aria tersa dilavasse via lentamente dalla sua coscienza». Intanto: «La testa di Carlo fece capolino dall'ingresso del bar. “Margherita”, chiamò. “Vieni”».
Infine, il sacrificio, nel doppio carattere di esclusione e protezione pagato dal loro eventuale vincolo amoroso per godere di un futuro seppure lontano, termina il capitolo espiativo, quando la donna, in un dialogo interiore, pensa: «”Dovrò chiedergli come si chiama” […] e continuò a respirare il cielo». Ma quale volta celeste? Quella eterna in cui il misunderstanding consiste non nell’atto in sé di frantumare le leggi della norma convenuta e imposta, ma nell’illusione genuina di poter infrangere impunemente un modus vivendi obbligato e autoritario. L’Io narrante di Diego Ria comunica quanto sia opportuno, ancora oggi, combattere - anche con lo strumento della poetica - allo scopo di invalidare umiliazioni e preconcetti inutili, dolorosi e inibitori.

 

4 commenti:

  1. Al di là della storia narrata, dettagliata nei particolari e con una sorta di maestria ed intelligenza che ci presenta il personaggio di Margherita nel suo duplice ruolo di vittima e trasgressore, quel che mu resta impresso nella mente è questo odore unico, inconfondibile, magico, non rintracciabile da nessuna parte. Un profumo che diventa il vero protagonista della storia. Trovo interessante e condivisibile la chiusa di Cinzia Baldazzi nella sua critica al racconto e cioè "L’Io narrante di Diego Ria comunica quanto sia opportuno, ancora oggi, combattere - anche con lo strumento della poetica - allo scopo di invalidare umiliazioni e preconcetti inutili, dolorosi e inibitori".
    Sì, è un obiettivo da perseguire e dal quale non possiamo allontanarci.

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  2. Sono d'accordo, Rosetta, e grazie anche da parte dell'autore per la solidarietà: elemento indispensabile quando l'obiettivo da raggiungere ha queste caratteristiche.

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  3. Il profumo unico ed irripetibile di Margherita, sciocca e ingenua p...ma non troppo, nel suo duplice ruolo, diviene il vero protagonista dell'intrigante racconto, specchio dei nostri tempi.

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    1. È giusto, Sergio. Ho tentato di esprimere una considerazione analoga anche riconducendo tale duplice ruolo all'alternanza di vittima e trasgressore tipica dell'eros eroico russo di Vladimir Propp.
      Grazie

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