lunedì 6 gennaio 2020


Domenico PUJIA – “Portatemi in Paradiso” (racconto breve)





Dormono tutti.
Io invece no.
Non ce la faccio.
Fa troppo caldo e allora mi alzo dal mio lettino e mi metto seduta.
La scuola sta finendo, è giugno e finalmente potrò andare a giocare fuori all'aperto.
Forse andrò da Sofì, la mia migliore amica.
Voglio distrarmi, dimenticare.
La finestra della mia piccola stanza è aperta.
Mi alzo di nuovo e mi avvicino per sentire l’aria fresca della notte.
Guardo fuori: gli altri palazzi sono come quello in cui abito.
Tutti uguali, tristi e silenziosi.
Nella penombra cerco con lo sguardo la mamma che sta dormendo.
- Mamma, devo andare in bagno! - sussurro nel buio. Ma lei non risponde.
Sento un bruciore fastidioso. Vorrei chiamare di nuovo, ma ho paura di svegliarla.
Allora decido di andare da sola. - Che dolore! -  penso, mentre soffoco un grido.
Apro piano il rubinetto per riempire con l’acqua un vaso e gettarne il contenuto nel gabinetto.
Faccio tutto lentamente per non svegliare nessuno.
Torno a letto in silenzio. Guardo per terra, poi osservo con attenzione il lenzuolo.
Questa volta è pulito.
Questa volta non ho sporcato.
Il lenzuolo deve rimanere sempre in ordine e asciutto.
Mamma si è raccomandata tanto e spesso mi sgrida. Ma non lo sa cosa mi succede?
Lei si arrabbia sempre. - Devi stare zitta! - urla. Sono spaventata. Perché fa così?
Adesso guardo di nuovo fuori dalla finestra. C’è una luce più chiara: è la luna.
Chiudo gli occhi e cerco di addormentarmi. Ma non è facile.
Non conto più il tempo. Poi sento qualcuno che grida. Sono stata io?
Apro gli occhi.
C’è qualcuno accanto a me: è la mamma!
Mi scuote dolcemente: - Svegliati, non avere paura. È giorno - dice sottovoce.
Mi giro dall’altra parte.


Se soffro non cerco parole. Cerco un cuore che ascolti il mio dolore e accolga le mie lacrime”


Una volta ero felice.
La felicità mi arrivava come una sorpresa.
Inaspettata, semplice, e ogni volta mi riempiva il cuore.
Bastava un sorriso o un odore sconosciuto. Oppure nuovi bellissimi colori.
O le giornate di sole.
O un regalo inaspettato.
Ma è passato tanto tempo.
Ero più piccola. Così piccola che non sapevo cosa dire.
Il mio cuore batteva forte e il respiro viveva insieme a me.
Allora non sapevo nulla. Mi bastava giocare con le mie amichette.
Fare nuove scoperte.
Come stringere piano un uccellino fra le mani.
Assaggiare cibi gustosi.
Guardare tutto attraverso degli occhiali colorati.
Osservare persone più grandi di me.
Ma certe scoperte era meglio non averle fatte.
Adesso ho paura. Anche del buio.
Ma non solo di quello.
Nessuno può aiutarmi?
La mia voce è piccola, ma tutti dicono che sia bellissima.
Chi mi ascolta?
Vedo solo sguardi indifferenti in giro.
Qui dove vivo. Nel palazzo che sembra una prigione.
Nella mia casa dai vetri rotti.


“Voglio uscire e giocare in un prato verde” 


Qualche volta, quando gioco fuori, nel cortile o vicino il portone, li vedo.
Si tengono bassi fra l’erba.
Sono in due. Oppure in tre. Cercano di nascondersi, ma io me ne accorgo lo stesso.
Sono veloci e lanciano rapide occhiate in giro.
Poi spariscono e non li vedo più.
Spesso arrivano quando fa molto caldo, dopo pranzo. Non ci sono molte persone a quell’ora.
Io li ho osservati anche dal mio balcone altissimo. Sembravano delle formiche.
Una volta hanno lasciato cadere un oggetto per terra.
Volevo andare a vedere ma la mamma me lo ha proibito: - Non andare laggiù - ha ringhiato con una voce dura.
Però quel fatto mi ha incuriosita. Così, pochi giorni dopo, con una scusa - mi è caduta una bambola - sono scesa giù a guardare.
Accanto al muro c’erano un tubicino in gomma e una siringa. Non mi sono avvicinata e li ho osservati un po’ senza toccarli. Sono risalita con la mia bambola in mano senza dire nulla.
Non volevo essere messa in castigo. Allora ho fatto un disegno su un foglietto.
Il giorno dopo, a scuola, ho chiesto a Paolina a cosa servissero quegli oggetti.
Paolina mi ha guardato un attimo ed ha alzato le spalle, poi è tornata a giocare con un’altra compagna. Ho mostrato il disegno ad Antonio, un altro compagno della mia classe.
Lui guarda il disegno e mi chiede dove li  ho visti.
- Vicino a casa mia, accanto al portone dell’isolato. -  rispondo.
Antonio mi guarda e poi dice: - Hai dei bei capelli biondi.
- Sai che novità! - rispondo mentre riprendo il foglio.
- Ti faccio un ritratto? - mi chiede allora Antonio, avvicinandosi.
Antonio è il più bravo dei miei compagni a disegnare.
Ma non c’è più tempo. La maestra ci fa finire la ricreazione. Si deve studiare di nuovo.
Apro il mio quaderno e infilo il foglietto fra due pagine.
Copio delle frasi dalla lavagna e quando ho finito la maestra si avvicina. Osserva quello che ho scritto e corregge con una penna rossa qualche parola che ho sbagliato a copiare.
Sono confusa e quasi mi viene da piangere, ma riesco a trattenere le lacrime.
Sento qualche frase di consolazione.
Ora mi devo impegnare a disegnare. Sempre sul quaderno.
I colori sono sempre quelli. Le figure non mi vengono bene. Sono storte, cupe, hanno un aspetto feroce. Le case sono senza porte e le finestre sembrano quelle di un carcere.
E poi c’è un’ombra che non riesco a mandare via.
- Via! Vattene via, maledetta! -
Chiudo gli occhi. Ma l’ombra riappare sempre.
Alzo la mano e chiedo alla maestra di andare in bagno.
La maestra fa un cenno verso la porta dell’aula.
- Vedi di non perderti per il corridoio! - ironizza.


In una stanza al buio con silenziose lacrime da calmare...” 



Oggi piove.
Mi avvicino al vetro della finestra: teme la pioggia, ma nello stesso tempo mi protegge dalle gocce umide e fredde dell'acqua.
Attraverso il vetro cerco di accarezzarle e le sento vibrare sotto le mie piccole dita.
Lontano la strada risuona tutta di ruscelli. Sembra un piccolo fiume canterino.
Non posso uscire fuori con questo tempo.
Sono sola e ho tanta voglia di giocare!
Allora prendo una delle mie bambole.
Questa! È morbida, soffice e colorata. Non le ho dato ancora un nome, anche se è tutta strappata ed inizia a perdere alcuni pezzi del suo vestito.
Osservo il suo volto: certe volte è ostile verso di me.
Mi guarda con un sorriso strano: allora io mi arrabbio e la scaravento lontano, verso la porta.
Mi avvicino di nuovo alla finestra nella speranza che tutto sia finito. Ma non è così.
Il vento fa ondeggiare la pioggia con suono che mi mette paura.
Un fischio, un sibilo che mi spaventa e mi fa allontanare dal vetro.
Cosa avverrà questa notte? Non voglio pensare a fiabe paurose o sogni inquietanti.
Forse domani sarà un nuovo giorno.
Forse più bello e luminoso. Forse più tranquillo.


Ma è terribile aspettare!              
              
                                           
Cerco qualche sguardo buono di cui fidarmi. Senza angoscia, senza segreti da tenermi dentro.
Quando lui arriva ho paura. Inizio a sudare e tremo tutta perché so cosa vuole e cosa mi farà.
È cattivo!  Allora cerco mamma: spero in un suo aiuto.
Lui è grande. Quando entra in casa io non so più dove andare.
Posso solo sperare che la mamma lo tenga impegnato o si distragga. A volte succede.
Parlano a lungo, oppure stanno insieme stretti stretti.
Qualche volta litigano. Allora scappo nel bagno. Aspetto che lui se ne vada e non si accorga più di me.
Adesso loro sono in cucina: parlano piano, le parole arrivano lontane.
Si sente l’odore di caffè.  Qualche risata. Il rumore di un cucchiaino che gira nella tazzina.
Aspetto. C’è qualcuno che si alza e sposta la sedia.
Sento la porta chiudersi. Non c’è nessuna voce, nessun suono. Dopo un po’ sento il rumore di una persona che torna indietro. È la mamma. Riconosco i suoi passi leggeri e ritmati.
Io apro lentamente la porta del bagno.
Lei si accorge di me e mi chiama: - Sei ancora lì? Esci subito e vai a fare i compiti. Subito!


Si trasformeranno tutti i miei pensieri in sventura”                                                  



Antonio non verrà più a scuola.
Paolina mi ha detto che è morto. Forse è caduto da una finestra mentre giocava. Ma come ha fatto?
Un incidente?
Morto. Vuol dire che non lo vedrò più. Non giocherà più con noi. Non mi regalerà nessun disegno.
Non lo vedrò più correre nel corridoio della scuola per entrare prima degli altri.
Cerco di capire cosa può essere successo, ma non ci riesco. Nessuno sa spiegarmelo.
A scuola tutti sono tristi. Hanno lasciato dei fiori sul banco di Antonio. Nessuno parla.
Solo brevi sussurri fra la maestra e qualche mamma all'entrata della scuola.
Oggi ho trovato un suo disegno appallottolato sotto il banco. Antonio era bravo a disegnare.
Molto più di me.
Ho portato il foglietto di nascosto al bagno e l'ho osservato.
C'era una persona grande, un uomo che sembrava un gigante e poi lui, Antonio: si era disegnato con due occhi enormi, le sue braccia senza mani e il colore rosso schizzato un po' dovunque.
Quel disegno mi ha spaventata moltissimo.
Così l'ho stracciato e l'ho gettato nel bagno. Poi ho fatto scorrere l'acqua.
Per un attimo qualcosa, veloce come un lampo, ha attraversato i miei pensieri.
Dove ha visto quell'uomo Antonio?
Non me ne ha mai parlato.
Quel gigante ritornerà? Ma esiste davvero?
Sono entrata tremando in classe.
Nessuno si è accorto del foglietto che non avevo più tra le mani.
La maestra ci ha fatto alzare in piedi per ricordare in silenzio il nostro compagno.
Ho paura.


 “So tutto del dolore...” 


Resto con tutte le mie parole chiuse dentro di me.
- “Coraggio” - dico a me stessa. Vorrei reagire e oppormi a quello che mi fa male.
- Devi stare zitta! - mi sento ripetere.
Ma io sono arrabbiata! Molto arrabbiata.
Ora però sto guardando le scarpette che piacciono a me. Hanno dei brillantini e luccicano.
Qualche volta ho provato anche quelle di mamma, più colorate, ma troppo grandi.
Le ho provate così, tanto per giocare, quando lei non mi vede.
Anche i nastri colorati mi piacciono. Ne ho tanti.
Provo a farne volare uno dal balcone per vedere dove va.
È un nastro rosso. Lo libero e lo guardo mentre fa le capriole nell’aria.
Il vento leggero si diverte a farlo salire e scendere. Poi lo fa dondolare. Com’è divertente!
Seguo le sue evoluzioni fino a quando scompare dietro al palazzo.
La mamma mi chiama e io rientro in casa.
Sento il rumore dell’ascensore che sale. Forse è qualcuno che deve fermarsi al nostro piano?
Resto con il fiato sospeso, in ascolto.
L’ascensore ora è più vicino, sta salendo, sale ancora e oltrepassa il pianerottolo.
Si ferma due piani più su.
Non è lui. Almeno per oggi.
Tiro un sospiro di sollievo mentre cerco un altro nastro colorato da far volare in aria.
Questa volta il colore che scelgo è blu.
Guardo la mamma indaffarata in cucina. Non si accorge di me.
Ritorno sul balcone e guardo giù in basso. Siamo altissimi. Mi sembra di toccare il cielo.
Le nuvole sono vicine. Chissà come sono fatte. Forse sono di cotone. O di zucchero.


“Non distruggete i miei sogni infantili”
    

Nella mia scuola Assunta è una bambina più grande di me.
Forse ha 11 anni. Fa la quinta.
È alta, bella e porta sempre dei bellissimi vestiti. Arriva sempre accompagnata dalla mamma.
Paolina, quasi ridendo, mi ha detto che lei è ricca.
- Come ricca? - chiedo.
La mia compagna mi guarda come se fossi una che non capisce niente e lascia andare le braccia lungo i fianchi.
- Assunta si fa pagare! - mi dice facendo una smorfia.
- Per fare cosa?
Paolina sbuffa, si guarda in giro e poi mi sussurra in un orecchio: - Cinque euro! -
Resto a guardarla con aria imbambolata.
- Sei proprio scema! - sibila lei.
Poi, di colpo, mi dice il motivo: - Si fa baciare! Cinque euro per un bacio -
Cinque euro! È un pezzettino di carta verde e bianca. Sono soldi. Ci puoi comprare caramelle, biscotti, matite. Qualche volta ho visto mamma che pagava con quei soldi per comprare il latte o un pacchetto di caffè.
Assunta è diventata ricca! Chissà quanti pezzettini verdi avrà in casa.
- Ma tu come lo sai? - chiedo.
Paolina non sorride più: - Guai se parli! È un segreto. Non lo sa neppure la maestra.
Faccio un passo indietro, spaventata.
- Allora perché me lo hai detto?
Lei mi guarda, mi prende per mano e mi sussurra: - Ti piacerebbe guadagnare dei soldi? Anche tu sei bella!
Non so cosa rispondere. Sono confusa. Guardo per terra e lascio la sua mano.
Baciarsi!  Che schifo!


Non voglio essere baciata ….     
                                                                 

È una giornata calda, la scuola ormai è finita e io voglio dormire ancora.
La mamma mi scuote: “Devo uscire. Tu non ti muovere e non uscire sul balcone. Torno subito”. Mi alzo a fatica. La colazione è pronta sul tavolino della cucina.
Non voglio restare da sola. Guardo la mamma. Mi guarda in modo inespressivo, non parla. Chiude la porta a chiave. I suoi passi si allontanano lungo le scale. Oggi l’ascensore evidentemente non funziona.
Quanto tempo passa?
C’è un rumore: qualcuno si avvicina al pianerottolo. Ma non sono i passi della mamma!
Una chiave cerca di aprire la porta.
Ho paura! Chi sarà? Cosa vogliono da me?
Ecco la porta che si apre, è un uomo. È lui!
Ho scelto: mi ribellerò contro le sue violenze.
Cerco di scappare ma vengo bloccata. È una lotta muta, senza parole, senza speranza.
Siamo di nuovo sul pianerottolo, in fondo c’è un grosso finestrone aperto.
Cosa mi succede? Sto volando, ma le nuvole restano lassù in alto, sempre più lontane mentre le finestre in fondo ai miei occhi si stanno chiudendo.

Portatemi in paradiso.



                                                            *    *    *



Domenico Pujia nasce a Roma nel 1956. Dal 1983 è docente di scuola primaria. Nel 2016 pubblica il romanzo Calabria terra di passaggio (Leonida edizioni - Premio speciale Amarganta a Rieti). Nel 2017, sempre con Leonida edizioni, esce La vergine della soglia (Menzione d'onore al premio Amarganta). Nel 2018 con Montag edizioni pubblica I giorni dell'odio, romanzo che vince di nuovo il Premio Speciale Amarganta e nel 2019 l'Holmes Awards a Napoli per la narrativa gialla inedita. Tra i racconti prodotti, e ancora inediti, Portatemi in paradiso - ispirato a un fatto di cronaca avvenuto a Caivano nel 2014 - ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra il 2017 e il 2019. La poesia L'ultima lacrima ha ricevuto nell'ottobre 2019 il premio "I Colori delle Parole" a Roma nella sezione poesie inedite.


                                                            *    *    *


Il diario delle ombre
Note sul racconto Portatemi in Paradiso

di Cinzia Baldazzi

Nel racconto breve Portatemi in Paradiso, la scelta dell’andamento sintattico, con l’insieme delle tracce semantiche ad essa legate, si rivela la maggior parte delle volte paratattica, privilegiando appunto un criterio di coordinazione nel periodo. In genere, una simile scala ontologico-stilistica viene formulata per scandire la narrazione in antitesi a quella ipotattica dove, essendo le molteplici unità grammaticali vincolate da una gerarchia logica di “come” e “perché”, il messaggio risulta, pur presentandosi variegato, più compatto.
Ebbene, tutto ciò, nella ricchezza della polisemia letteraria, nel testo di Domenico Pujia intraprende un percorso particolare: nonostante il calcolato, incalzante ritmo sincopato dei paradigmi coordinati, emerge sin dalle righe iniziali la forza di un itinerario figurato capace di dare continuità causale, forte, energica, consequenziale-unitaria, non sviluppata diacronicamente. La conseguenza principale di cui cerchiamo il motivo coincide con le ragioni relative alla tragica fine della vita della bambina, immaginaria autrice del diario in prima persona. Per aiutare a risolvere il quesito, di frequente compaiono i corsivi per riportare battute di un dialogo, oppure lessemi tra virgolette («Coraggio»), o frasi in grassetto («So tutto del dolore…») in calce alla pagina.
Il ricorrere a un tale codice di trascrizione è dettato dal sofferto, coinvolgente scopo dell’autore di trasmettere al destinatario - per agevolarlo nella comprensione - le sfumature del linguaggio infantile che, possedendo ancora un numero di entità lessicali abbastanza ridotto, ne viene così potenziato al massimo nelle circostanze peculiari dell’aura di enunciazione o di resa grafica.
La piccola si rivolge in alcuni casi a un ipotetico ascoltatore, in altri a se stessa. Con la mamma intende comunicare per mezzo del pensiero, poiché il contenuto del loro scambio di atti di parole sembra piuttosto esiguo. Eppure, sono due proiezioni del medesimo personaggio: la figliola ne è consapevole e, quando prova timore della madre, il confine della paura che ha “per” lei o “di” lei appare molto labile. La droga, il sesso a pagamento, lo sfruttamento sessuale dei minori, sono “mostri” inseriti tra parole, forme grammaticali, strutture di sintassi, cadenze ritmiche del discorso, insinuati tra la voce soggettiva di chi scrive e sprazzi sintatticamente assai raffinati di un point of view onnisciente:

Nessuno può aiutarmi?
La mia voce è piccola, ma tutti dicono che sia bellissima
Chi mi ascolta?
Vedo solo sguardi indifferenti in giro.

Nel diario, la “scoperta” assidua della protagonista permette a lei, a noi, di considerare gli oggetti come interni e non esterni rispetto alle notizie fornite, in modo che anche da questo punto di vista si riproponga l’uniformità, la compattezza del messaggio del plot, ossia la storia ancestrale del dolore. Le ombre sono più fitte, spesse:

Ora mi devo impegnare a disegnare. Sempre sul quaderno.
I colori sono sempre quelli. Le figure non mi vengono bene. Sono storte, cupe, hanno un aspetto feroce. Le case sono senza porte e le finestre sembrano quelle di un carcere.
E poi c’è un’ombra che non riesco a mandare via.

Il realismo ingenuo, tuttavia inesorabile e coraggioso dell’Io narrante, evoca il mondo della story equivalente a un complesso le cui distinte fasi esistono solo in virtù l’una dell’altra:

Una volta hanno lasciato cadere un oggetto per terra.
Volevo andare a vedere ma la mamma me lo ha proibito: - Non andare laggiù - ha ringhiato con una voce dura.
Però quel fatto mi ha incuriosita. Così, pochi giorni dopo, con una scusa - mi è caduta una bambola - sono scesa giù a guardare.

La radice tecnico-semantica e il procedere del nostro racconto dimostra quanto avesse ragione il professor Emilio Garroni allorché in Ricognizione della semiotica (1977) affermava che il linguaggio non possa mai collocarsi al di fuori di se stesso o delle proprie attitudini intellettuali:   

La consapevolezza delle condizioni del parlare e del conoscere non semplicemente passa attraverso il linguaggio, così come passa attraverso l’operazione, ma per così dire si ferma in esso, si istituzionalizza in linguaggio, si proietta e si specifica insomma in “strutture forti”.

Forti come il gesto finale di una bambina contro la violenza, insieme al suo posto nel Paradiso: riservato a chi, benché in misura estrema, una simile sopraffazione è riuscito a vincerla.


             

1 commento:

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