venerdì 24 gennaio 2020



Massimiliano IVAGNES - "Se non qui, dove?" (racconto breve)



Quel giorno di fine settembre mio padre aveva davvero la luna storta.
Sapeva che ormai gli rimanevano pochi giorni di quella vita da pescatore che aveva condotto fino all’età di quasi ottant’anni.
Era ancora intento a sistemare le nasse seduto sulla scogliera, vicino alla sua vecchia paranza che aveva chiamato “Libera”, quando mi avvicinai per cercare di fargli ritornare il buon umore.
“Ne hai ancora per molto, papà?”, chiesi con finta noncuranza.
“Ne ho finché queste nasse non sono pronte per l’uscita di domani”, mi rispose seccamente.
“Ma sei sicuro di voler uscire? Le previsioni portano maltempo per domani…”, tentai di opporre timidamente.
“Verrà a piovere per pranzo. E io, per quell’ora, sarò già rientrato da un pezzo”, precisò con il broncio.
“Va bene”, mi arresi. “È giusto che tu esca per l’ultima volta con la tua barca”, continuai abbozzando un sorriso.
“Se non esco, niente pesca. E se niente pesca, niente pranzo!”, mi rimbrottò con gli occhi fissi sulle nasse.
“Si lo so, papà, è da quando sono piccolo che me lo ripeti. So che per te sarà difficile, almeno per i primi tempi. Ma vedrai che alla fine ti ci abituerai…”, provai a tranquillizzarlo. “La vita di città ha i suoi vantaggi, sai?... Finalmente starai al caldo, in una casa asciutta e confortevole… Non giova tutta questa umidità ai tuoi reumatismi… e poi, saperti qui tutto solo, dopo la morte di mamma… in quella casetta minuscola… ecco… non mi fa stare tranquillo! D’altronde, il lavoro non mi permette di starmene qui in paese... Il bilocale che abbiamo preso a Bari di fianco casa mia sarà perfetto per te, vedrai… E poi è il caso che ti goda un po’ la pensione che con tanti sacrifici sei riuscito ad ottenere, i tuoi nipoti…”, argomentai con ragionevolezza.
“Quella casa minuscola che tanto disprezzi ha ospitato la nostra famiglia per almeno vent’anni e vi abbiamo vissuto tutti dignitosamente!”, mi interruppe stizzito. Poi, moderando il tono della voce, con fare suadente, mi supplicò: “Lasciami qui, figlio mio. Un pescatore non potrà mai separarsi dal mare. Non può farne senza. Sarebbe come morire anzitempo”.
“Papà ne abbiamo già parlato ed è stato già deciso”, risposi con tono fermo. “Tu verrai a vivere a Bari con me e mia moglie. Non puoi andare avanti così. E, soprattutto, non hai più l’età per fare il pescatore, per abitare da solo in riva al mare…”.
“Se non qui, Michelangelo, figlio mio, dimmi dove potrei abitare io?! Dove?!”, mi interruppe con gli occhi lucidi.
“Con me, in città! A fianco ai tuoi cari”, provai a persuaderlo.
Mio padre abbassò lo sguardo, mi voltò le spalle ed iniziò a caricare le nasse sull’imbarcazione senza dire altro. Era triste. Triste e contrariato. Rammaricato di non essere compreso.
Io sospirai profondamente. Sapevo che per lui sarebbe stato un sacrificio enorme venire a vivere a Bari. Ma sapevo anche con non potevo più lasciarlo solo lì, in paese, e permettergli di andare a pesca in mare aperto in qualsiasi periodo dell’anno. Non era più in grado, con i suoi acciacchi e l’età avanzata, di governare una paranza. E anche quell’imbarcazione era ormai così malridotta da farmi stare sulle spine ogni volta che prendeva il largo. “Sarà dura in principio”, pensai, “ma con la buona pazienza e con il nostro affetto si ambienterà ed accetterà la vita in città lontano dal mare, lontano da Libera”.

Il giorno seguente, alle tre del mattino, lo sentii già trafficare in cucina. Mi alzai lentamente, curando di non svegliare mia moglie e lo raggiunsi.
Aveva già preparato la borsa con la coperta, la bottiglia dell’acqua e il panino ed aveva indossato la sua scoloritissima giacca a vento blu.
“Sei sicuro che non vuoi un po’ di compagnia?”, gli domandai sottovoce. “Potremmo uscire insieme, come ai vecchi tempi”, proposi affettuosamente.
“No, stai tranquillo, Michelangelo. Quest’ultima uscita la voglio tutta per me. E non state in pensiero. Prometto che al massimo per mezzogiorno sarò di ritorno”, mi rassicurò.
“Come vuoi. Divertiti!”, gli augurai sull’uscio di casa, assaporando sul volto la brezza settembrina.
“Disse il boia al condannato che fumava la sua ultima sigaretta…”, rispose mio padre, mentre slegava le cime di Libera con la maestria di decenni di ininterrotta attività.
Per un po' la paranza si lasciò trascinare dalla timida corrente marina, fino a che non venne inghiottita dal buio, sparendo dalla mia visuale. Rimasi in attesa di sentire accendere il motore e dopo rientrai in casa.

Mi risvegliai intorno alle nove, con una strana sensazione di malessere dentro. Mi affacciai alla finestra e notai all’orizzonte un ammasso di nuvole nere e minacciose, come un presagio funesto.
Verso le undici del mattino, d’improvviso, venne giù il finimondo: lampi, tuoni, fulmini… pareva che si fossero aperte le cataratte del cielo, mentre un vento freddo di libeccio faceva ingrossare paurosamente il mare. Provai a chiedere aiuto in paese, ma nessuno degli abitanti ebbe il coraggio di mettersi in mare con quel tempaccio.
“C’è solo da pregare che non succeda nulla di grave”, disse Claudio, pescatore anch’egli e amico di vecchia data di mio padre: “Aspettare e pregare”.
Di Libera non si seppe più nulla. Il corpo senza vita di papà, invece, venne ritrovato riverso su una spiaggia della costa a tre chilometri a est del paese, due giorni dopo. Accanto a lui, sull’arenile rinvenni questa grossa conchiglia bianca, dalla quale non mi separo mai.

“Ecco perché la tieni sempre sul comodino”, rifletté mia figlia accorata.
“Non essere triste, piccola mia”, le sussurrai con dolcezza. “Forse, doveva andare proprio così… Ascolta nella conchiglia”, la esortai portandogliela vicino all’orecchio sinistro.
“Si sente il rumore del mare!”, sussultò divertita.
“È vero: si sente il mare”, approvai con un sorriso. “Ma se tendi bene l’orecchio, se presti bene attenzione riuscirai a sentire anche la voce del nonno che dice: Io sono qui. Sono sempre stato vicino al mare. Se non qui, dove? …”.


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Massimiliano Ivagnes è nato nel 1970 a Roma. Dopo la maturità scientifica si è laureato in Giurisprudenza e poi ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto penale. Ha pubblicato diversi studi di diritto intertemporale su riviste specializzate, svolgendo parallelamente l’attività di avvocato.
Da sempre appassionato di letteratura, nel 2018 ha pubblicato il suo primo romanzo: Palla al centro (Gruppo Albatros Il Filo ed.) con il quale, tra gli altri riconoscimenti, ha vinto il Premio internazionale di letteratura e Poesia De Finibus Terrae 2018.
Nel mese di luglio 2019 è uscita la sua prima raccolta organica di poesie dal titolo  Uomini, noi... (ed. Aletti), con la quale l’autore esplora l’universo maschile sotto i suoi multiformi aspetti di vita e di personalità, ispirandosi alla gente comune, rappresentativa dei sentimenti e delle problematiche dell’uomo contemporaneo. La raccolta ha ottenuto il terzo posto al Premio Maria Cumani Quasimodo 2019. Lo scorso dicembre è uscito il suo secondo lavoro di narrativa Questioni di coscienza (Gruppo Albatros Il Filo ed.).



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commento di Cinzia Baldazzi


Nel riflettere su brani di prosa - e Se non qui, dove?, racconto di Massimiliano Ivagnes, ne è prova - mi è spesso accaduto di dover confermare la teoria in base alla quale l’opera letteraria può non incrementare una speciale scienza della successione, piuttosto una rete di trasformazioni: in tale sviluppo il lettore partecipa agli esiti non dal punto di vista diacronico ma sincronico, ossia la trama-intreccio ne condivide non il divenire, ma i risultati.
Nella critica moderna, il riferimento è a short story di una lunghezza compresa entro le otto pagine: vale a dire, scritti tra le 1.000 e le 4.000 parole (Se non qui, dove? è di 969), secondo alcuni sotto la soglia delle 20.000 (ai confini con il romanzo breve). Da tali strutture deriva uno spiccato meccanismo polisenso e una rilevante “auto-riflessività” del contenuto - lo documentava nel 1960 il formalista russo Roman Jakobson - inseriti entrambi in un numero maggiore di segni-unità significanti.
In effetti, l’origine dei brani di prosa, oggi discussa nelle modalità di “novelle”, “racconti”, “tales”, “short stories”, oppure “short short stories” (inferiori ai 1.000 vocaboli), risalirebbe “itinerante” dall’India, diffusa poi in Occidente, cogliendo l’insieme creativo fissato negli epos orali vicini alle omeriche Iliade e Odissea. Il patrimonio di leggende, di fantasie non trascritte sembra fosse all’epoca tramandato da versi in rima o ritmici e ricco di contributi ricorrenti: nel caso di Omero, erano i cosiddetti “epiteti”, o “formule” (da “Achille piè veloce” ad “Atena occhi azzurri”). Il grecista Milman Parry ha rivelato come l’intero corpus Homericus, di circa 27.000 esametri, coincidesse con un mosaico geniale di una serie di succinti “formulari”, ripresi ad hoc nei repertori epici a partire da Apollonio Rodio.
Nel testo di Ivagnes, un siffatto meccanismo prioritario di continuum legato alla fisicità si consolida e si replica nelle aurore, nei crepuscoli, nella terra ferma, nelle distese marine, tra gente lontana e prossima: sorge un respiro di immenso pari al mare, eterno in consonanza alla natura dell’anima e delle sue ambiguità.
Nel sintetico racconto Se non qui, dove?, già il titolo manifesta un’ubicazione misteriosa degli assi di pertinenza del lessico: non tanto della matrice cognitiva, quanto nella loro attinenza spazio-temporale, lasciando intravedere il mare, o meglio la morte in mare, come l’unica via utopica di sopravvivenza consentita al vecchio padre. La struttura semiotica del messaggio è globale, coltivando lo scopo di non sovrapporre il pensiero dell’Io narrante alle notizie trasmesse, guidato com’è, illustrando l’esistenza dell’anziano pescatore, dall’intento morale e affettivo di non parlare al suo posto.
Da un lato siamo messi a conoscenza di elementi volutamente confusi tra sostanziali e accessori; dall’altra, assistiamo ex abrupto a fenomeni decisi, programmati a nostra insaputa. Ad esempio, il figliolo ha mai creduto davvero che il papà avrebbe abbandonato la casa sulla marina per seguirlo a Bari? E quando il genitore si imbarca su “Libera”, la storica paranza, veramente affronta l’ultimo viaggio in mare prima di trasferirsi in città? O invece appare conscio di ricongiungersi per sempre all’universo marino, facendosi poi trovare esanime sulla spiaggia, vicino a una grande conchiglia bianca?
Per comprenderlo, durante la lettura potrebbe essere opportuno utilizzare i classici tropi della metonimia, sineddoche, metafora: tuttavia, forse rimaniamo troppo affascinati dall’occupare questo spazio, questa aura di continui interrogativi per prestare fiducia completa a tali figure esemplari di comprensione. Applicando, così, la forma più semplice di associazione per contiguità, riga dopo riga, interpretiamo i concisi dialoghi prima che il peschereccio sparisca nella notte, quindi il breve resoconto di cronaca sul naufragio, infine il colloquio con la figlia-nipotina. Certo, i due principi associativi della similitudine e contiguità, nella coesione superiore della frase letteraria, conquistano sempre il contatto con la parola, l’icona proposta: in questo caso la conchiglia, in apparenza trait d’union tra fisicità e dissolvimento, presenza e memoria.
Massimiliano Ivagnes ha costruito un’intelaiatura logico-intuiva finalizzata a riconoscere nel mare un’entità totalizzante, capace di recuperare significati, di vivere al suo posto magari sotto altre vesti, ovvero tra le spire risuonanti di una conchiglia: nel suo locus naturale (sulla sabbia, vicino al mare), altrimenti in contesti ulteriori (sul comodino di un appartamento), infine all’orecchio di una bambina. A questo punto, dobbiamo chiedere: intendiamo esistenza terrena, oppure ricordo? Al di là o al di qua del reale si colloca ora il marinaio, anche padre e nonno? Non è necessario - e il plot lo dimostra - analizzare il contenuto in due maniere distinte: la coppia di soluzioni ne costituisce una sola. In un saggio su Discorso del racconto (1972), il critico francese Gérard Genette, trattando di retorica ha scritto: «La vela non è contigua alla nave, ma è contigua all’albero, al pennone, e per estensione, a tutto il resto della nave, a tutto ciò che, della nave, non è vela».
Dunque, un ciclo quotidiano strettamente connesso al mare è solo una parte del vivere, ma può appartenere a tutti i suoi fenomeni, quindi significarla nel complesso. In altri termini, la short story procede alternando presenza-assenza di vita e morte, comparandole grazie al ruolo assunto in un confronto del genere. Prima la preghiera del vecchio: «Lasciami, qui figlio mio. Un pescatore non potrà mai separarsi dal mare. Non può farne senza. Sarebbe come morire anzitempo». Poi l’indicazione del figlio alla bimba: «Se tendi bene l’orecchio, se presti bene attenzione riuscirai a sentire anche la voce del nonno che dice: Io sono qui. Sono sempre stato vicino al mare. Se non qui, dove?...».
Nel volume dedicato a I fondamenti della semiotica cognitiva (1931), il filosofo statunitense Charles Sanders Peirce dichiarava: «Il concetto universale più prossimo al senso è quello del presente in generale». Inoltre: «L’unità a cui l’intelletto riduce le impressioni è l’unità della proposizione […] ovvero il concetto dell’essere, quello che completa l’operazione propria dei concetti: la riduzione della molteplicità a unità».
Ciò si verifica poiché è ampia la varietà delle impressioni suscitate dal mittente del messaggio al destinatario e, precisa Peirce, «dal momento che c’è una molteplicità di impressioni, abbiamo un sentimento di complicazione o confusione che ci spinge a differenziare le varie impressioni; e quindi, essendo state differenziate, richiedono di essere ridotte a unità».
A quale unità mi riferisco? Di sicuro - lo testimonia la story di Ivagnes - non un’organizzazione concettuale autoritaria distaccata dal contesto e ad esso indifferente, semmai sua complice: la rappresentazione, elaborata e accolta, viene sottoposta a un continuo legame con i soggetti-oggetti, indici o segnali evocati. In sostanza, scorrendo le pagine di Se non qui, dove?, la coinvolgente sintesi della molteplicità in unione di significante-significato garantisce dapprima l’indispensabile carica-emozionale nel discriminare gli elementi percepiti; in seguito, però, subentra la non comune propensione a dissociare, tra i dati ricavati, non il vero dal falso, il concreto dall’immaginario, ma quanto è e sarà dal vuoto assoluto di associazioni, di valori.
Dal primo insieme di pertinenza scaturisce una proposizione dell’essere uomini, donne, adulti, bambini, da afferrare immediatamente: alludo ai concetti più spontanei da organizzare nonché conservare insieme a quelli la cui pronta affidabilità è mediata solo da lontano, in prospettiva. Così leggiamo: «Mi svegliai intorno alle 9, con una strana sensazione di malessere dentro. Mi affacciai alla finestra e notai all’orizzonte un ammasso di nuvole nere e minacciose, come un presagio funesto. Verso le 11 del mattino, d’improvviso […] pareva che si fossero aperte le cataratte del cielo».
Ha ragione Ivagnes: non sempre risulta necessario e proficuo attendere il “dopo”, dal momento che è indiscussa l’idea della essenziale metaforicità posseduta in sé dalla langue letteraria, dal linguaggio in genere, che si rivela all’altezza di esprimere anche il più complesso e indefinito ambito reale.





7 commenti:

  1. Bellissimo racconto, (mi ha risuonato nell’anima un po’ de “Il vecchio e il mare”). E, come sempre, molto accurata e approfondita la Tua analisi. Sei proprio speciale, grazie delle emozioni che ci regali!

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  2. mi piace la semplicità di questo racconto , e allego questa mia poesia per integrare questa conchiglia in un testimone del ricordo.
    Ho raccolto una conchiglia
    intrisa nei colori del mare.
    In fondo ai suoi labirinti
    c’è un ricordo di te.
    Luce che pochi vedono
    a volte illumina
    questo cielo con le sue stelle.

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    1. Poesia molto evocativa, caro Nicolò, quasi scaturita dall'atmosfera che circonda l'epilogo del racconto.
      Grazie.

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  3. bellissimo brano
    avvincente e poetico

    bravo, Massimiliano!!

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