Diego RIA – “Ezio
e il campanile” (racconto breve)
Ezio
era un uomo facilmente irritabile, maleducato e avaro.
Non
era vecchio, ma aveva stampata addosso l’alterigia di chi crede di aver fatto
anche troppo in vita sua e, per questo, gli sia dovuto incondizionato rispetto.
Era un insegnante di cultura mediocre e aveva un pessimo rapporto coi suoi
alunni.
Si
sentiva fondamentalmente sadico, per questo non mancava mai alla mensile
riunione di famiglia. Sapeva quanto gli altri fossero infastiditi dalla sua
presenza e ne godeva. Per nessun’altra ragione al mondo sarebbe tornato
nell’ammuffita villa di campagna dei suoi genitori, se non per rovinare la
giornata a quel vecchio fossile di suo padre, a quel disgraziato di suo
fratello, accompagnato dal pit bull terrier di sua moglie e due piccoli
mostriciattoli lagnosi. Alla cugina Eva, stupida oca, e al suo bambolo
imbalsamato ex modello. A quella ciabatta consunta di zia Agnese e allo zerbino
di sua sorella, disgraziatamente sua madre.
Sedeva
nel grande giardino, alle spalle il fitto bosco di olmi e castagni saliva fino
alla vetta della collina che dominava la tenuta. A sinistra del suo sguardo,
oltre la villa, l’aia recintata dove rumorose e idiote bestioline, dette
galline e papere, consumavano la loro misera esistenza roteando a scatti il
collo. In fondo la fetida stalla.
Ezio
voltò il viso disgustato, incontrando gli occhi di suo padre, seduto accanto a
lui.
“Sai
quel dolorino che avevo allo stomaco…”, disse il vecchio. “Sto molto meglio ora”.
“Che
bello”, sbuffò Ezio. “Non ti seppellirò nemmeno questa volta”.
“Prima
o poi lo farai”.
“Non
sarà mai troppo presto”.
Suo
padre scrollò le spalle con un grugnito. Si era ormai abituato al modo di fare
di suo figlio, lo prendeva come uno scherzo di cattivo gusto. Ingoiava
spazzatura per non chiedersi come fossero arrivati a questo punto.
“E
quando accadrà”, proseguì Ezio, “metterò la mamma in un monolocale, giù in
città, venderò questa bicocca e mi sputtanerò tutti i soldi alle Maldive”.
Il vecchio
annusò l’aria. La campagna era umida e triste, il campanile del piccolo borgo
svettava in lontananza. Prese un profondo respiro e chiuse gli occhi, cercando
di non pensare.
Si
avvicinò suo fratello Gabriele.
Qualche
metro distante, sua cognata beveva analcolico e chiacchierava con Eva e il suo
fidanzato, il modello. Quell’uomo era schifosamente impeccabile, tanto
nell’estetica che nel modo di fare. Sentendosi gli occhi di Ezio addosso, gli
rivolse un ampio sorriso, sollevando il bicchiere.
Un
uomo così poteva essere solo falso, fedifrago e bugiardo. Ezio rispose al
brindisi mostrandogli il dito medio, cosa che fece piegare in due dalle risate
il bambolo. Sua cognata invece era già furiosa. Tentava di contenersi ma aveva
la mascella tirata e stringeva forte il bicchiere.
“Non
hai ricevuto il mio messaggio la scorsa settimana?”, gli chiese Gabriele. C’era
un che di gentile nella sua voce. La sua debolezza era gentile, la sua
inettitudine era gentile.
“Era
il compleanno di Giacomino. Ti avevo invitato alla festa”.
“Oh
sì", rispose lui distratto, senza guardarlo. “Ma sai, c’era la Juventus”.
“Era
mercoledì alle cinque del pomeriggio. Non c’era la Juventus”.
“C’era.
Una replica”.
Vide
sua cognata sussurrare tra i denti: “Ma che ci parla a fare con quello
stronzo?!”, ed Eva annuire, con le labbra sul bicchiere. Quelle labbra.
Dei
gridolini interruppero la scena.
Zia
Agnese stava uscendo dalla stalla con Tommaso e Giacomino per mano. I bambini
gridavano eccitati, la zia doveva avergli fatto strigliare il vecchio Fulmine.
Ezio
non aveva voglia di sentirsi quei marmocchi attorno, decise di fare una
passeggiata su per il bosco in attesa del pranzo. Diede un grido a sua madre,
impegnata in cucina, e attaccò la salita.
Detestava
la natura ma amava il silenzio. Soprattutto quel silenzio elettronico che
pervadeva il suo appartamento in città, perennemente vuoto, dove solo la tv, la
radio e il computer osavano tranciare l’aria per parlargli. Dove le finestre
stavano serrate in ogni stagione, dove l’unica pianta era di plastica e l’unico
animale di marmo.
Camminò
una mezz’ora, scivolando e imprecando diverse volte sul terreno umido, fino a
raggiungere la vetta. Da lì si vedeva uno scorcio di valle e il paesino.
Guardò
il campanile e, come se l’avesse destato, questi rintoccò il mezzogiorno.
Chiuse
gli occhi un istante, li riaprì, ma questi non obbedirono.
Ezio
tentò di sbattere le palpebre più volte, velocemente, ma gli occhi non si
aprivano. Se li stropicciò e si rese conto: gli occhi erano aperti, ma il velo
nero che gli restituivano poteva significare solo una cosa. Era diventato
improvvisamente cieco.
Provò
a colpirsi le tempie, si scosse la testa, ma ad ogni istante che passava una
stretta sempre più serrata alle viscere gli diceva: “È tutto vero”.
Una
fulminea, sordida paura lo attanagliò, tanto da strozzare in gola
l’imprecazione che stava sgorgandogli dal petto. Si accasciò al suolo tastando
il terreno. Una grossa radice, ricoperta da un soffice strato. Dall’odore lo
valutò muschio.
Inaspettatamente
si ricordò di quando zia Agnese portava lui e Gabriele su per la collina a
raccoglierlo per il presepe. A quei tempi era sempre vivo zio Ivo, che li
aspettava per portarli alla stalla da Sceicco, il cavallo che avevano prima di
Fulmine. Era bello spazzolare Sceicco, era così calmo, così enorme. Lui passava
un lato, Gabriele l’altro, e alla fine zio Ivo decretava il vincitore, il re
della spazzola. Di solito uscivano correndo e gridando dalla stalla e la zia
doveva rincorrerli per spolverargli le maglie sporche di pelo e paglia.
Chissà
chi era stato, oggi, il re della spazzola tra Giacomino e Tommaso.
Ezio
lasciò andare quell’immagine, doveva far qualcosa e subito.
Si
alzò e, senza pensare, iniziò a gridare una serie di “Aiuto!”. Si sentì stupido
e umiliato. Chi avrebbe aiutato un uomo come lui? Si immaginò il modello
sghignazzare della sua cecità e baciare Eva sul collo. La sua Eva, quella dolce
bambina che, nascosti dietro la stia delle galline, offriva due giovani e
acerbe susine alla sua bocca.
Un
moto di rabbia lo prese. Conosceva quella collinetta come le sue tasche, in
alcuni punti era un po’ ripida ma non c’erano crepacci. Decise di tentare la
discesa, forse da più in basso lo avrebbero sentito.
Procedette
con cautela, aggrappandosi a ogni ramo, a ogni cespuglio che le sue braccia
brancolanti incontravano. Cadde più volte. Quella terra era fertile e umida, aveva
i pantaloni e le mani inzuppati di fango colloso. Saggiandolo con i palmi, ne
fece una pallina. Questo gli strappò un sorriso: gli vennero a mente le bombe
di fango che lui e Gabriele si tiravano, usando il trattore e la mietitrebbia
come fortino.
Da bambino
la vita era spensierata ma ora, da troppo tempo, si sentiva vecchio, eppure non
così vecchio da avere un accidente simile. Qualcosa di circolatorio e di
cerebrale, non c’era dubbio. Cos’altro poteva toglierti la vista in quel modo
improvviso?
La
paura lo prese nuovamente al petto. Si affannò più veloce verso il basso,
moltiplicando le cadute.
Uno
scalpiccio tra i cespugli lo impietrì, si acquattò nervoso. Poteva essere un
cane randagio o, peggio, un cinghiale.
Rimase
in ascolto per un lungo minuto. Poi i passi ripresero, sempre più
impercettibili mano a mano che l’animale si allontanava da lui, fino a non
essere più udibili, fino a lasciarlo solo con la bestia, quella maledetta
bestia che da anni gli divorava l’anima, pezzo per pezzo, che lo rendeva
sterile e astioso. Inutile.
Era
madido di sudore, sporco di fango, graffiato e impaurito. Era iniziato a dieci
anni. Voleva nascondersi da Gabriele e si era ficcato nel bosco nonostante
l’imbrunire. Il calare delle ombre lo aveva confuso e non riusciva a trovare la
via per casa. E lì, solo, al buio, terrorizzato, si era impietrito al suolo.
Un
gufo aveva volato radente, pochi metri sopra la sua testa, lanciando un orrendo
verso acuto. E la bestia aveva iniziato a sussurrargli cose nell’orecchio,
aveva approfittato della sua debolezza, del suo terrore, per ghermirlo e
impossessarsi di lui. La bestia non ascoltava le sue preghiere, non provava
pietà per le sue lacrime e il suo tremare convulso. La bestia voleva
mangiarselo.
Era stato
suo padre a ritrovarlo, dopo più di un’ora. Gli aveva rifilato uno sculaccione
e un abbraccio forte, disperato, ma guardandolo negli occhi aveva trasalito.
Era come se anche lui avesse visto la bestia nella trasparenza degli occhi di
Ezio e, con la scusa di carezzargli il viso, glieli aveva chiusi con la mano.
Suo
padre si era arreso, subito, alla bestia. Aveva lasciato che prendesse possesso
del bambino senza lottare, e lei aveva iniziato a divorarlo da dentro, piano
piano, fagocitandolo per anni, risputandolo marcio e mangiandolo ancora, senza
sosta.
Ezio
si batté le mani sulla fronte, per scacciare i fantasmi. Il campanile batté
l’una.
Come
se un interruttore fosse stato premuto nella sua testa, Ezio ritrovò la vista.
Una gioia incredula e sgomenta lo pervase. Si guardò intorno per orientarsi e
corse verso casa.
A
venti metri dal giardino vide suo padre, stava risalendo il sentiero per
chiamarlo, ché era pronto in tavola. Ezio gli corse incontro, lo abbracciò, lo
strinse forte.
Lui
parò le mani per proteggersi, ma l’abbraccio continuava, costante.
Lacrime
brumose bagnarono gli occhi del vecchio. Le spalmò via col dorso della mano,
poi guardò suo figlio, tutto fangoso e graffiato. Lo guardò negli occhi, senza
paura, ché la vita ormai era al tramonto e non c’era più niente da evitare,
nemmeno la morte.
“Che
hai fatto?”, chiese con un filo di voce.
“Ho
avuto paura”, rispose lui con un singulto. “Ho sempre avuto paura”.
Suo
padre gli carezzò la testa, lo prese per mano. Gridò agli altri di iniziare a
mangiare, ché loro arrivavano tra un po’. Insieme risalirono la collina.
Diego
Ria è un operaio metalmeccanico livornese di 47 anni con una grandissima
passione per la letteratura. Tre anni fa ha seguito un corso di scrittura
creativa nella sua Livorno e ha iniziato a scrivere racconti brevi. È stato
finalista del premio “Città di Livorno” del 2016 col racconto L'ultimo sciopero della mia vita e del
premio “Terra di Guido Cavani” 2017 con E
Nunzia, che dice? Il racconto qui pubblicato, Ezio e il campanile, è arrivato terzo nel concorso letterario “Incrociamo
le penne” 2017.
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Quando sfogliamo le pagine di un
racconto, nel nostro caso Ezio e il campanile di Diego Ria, in genere
l’aspettativa coincide con il cogliere un messaggio narrativo più o meno vasto,
“condensato” (non “ristretto”) in confronto all’epos e al romanzo classico,
divenendo così basilare percepire, nella relativa brevità del testo, gli
elementi semiotici essenziali in gioco: da un lato la fonte ispirativa
letteraria, dall’altro la Weltanschauung (visione
della vita) divulgata. Conosciamo, dunque, sin dalla riga iniziale la facoltà utopica
nell’atto di fare i conti con Ezio: «Un uomo facilmente irritabile, maleducato
e avaro». Già dall’incipit risulta evidente quanto trama e intreccio tematici della
short story siano capaci, nella
scelta stilistica, di elaborare segni e segnali in reti plurime di sintagmi e
paradigmi: entro l’orizzonte di una fisionomia simbolica dall’aura comunicativa
teatrale, di sicuro non nella struttura semantica specifica, sfiorandone la competenza
nel fondare un mosaico articolato in primis su personaggi e ambiente, in un arco
di spazio e tempo limitato, anche se a metà tra il verosimile e il fantastico.
L’origine drammaturgica del
vocabolo “personaggio” è molto nota, derivando dal latino persona: è la maschera, emblema di un tipo preciso incaricato di ricoprire ruoli
caratteriali, incluso il mondo animale, come in Diego Ria accade a un
inquietante cinghiale, presto trasformato nella temuta “bestia”. Il
protagonista e i coprotagonisti (dai minori ai minimi, alcuni nei panni di semplici
comparse) sono insomma “attori in campo”, poiché agiscono eludendo pause
ridondanti, gestendo una prossemica spontanea, conversando e rapportandosi con
ulteriori soggetti del plot in una matrice sincronica e nell’insieme diacronica,
di successione, in un dialogo bisognoso di attenzione immediata: quasi avessimo
il presagio di perdere per sempre l’occasione di interpretarlo se non lo decifriamo
nel momento in cui procedono le parole.
Infatti, leggiamo: «“Non hai
ricevuto il mio messaggio la scorsa settimana?” gli chiese Gabriele. C’era un
che di gentile nella sua voce. La sua debolezza era gentile, la sua
inettitudine era gentile. “Era il compleanno di Giacomino. Ti avevo invitato
alla festa”. “Oh sì”, rispose lui distratto, senza guardarlo. “Ma sai, c’era la
Juventus”. “Era mercoledì alle cinque del pomeriggio. Non c’era la Juventus”. “C’era.
Una replica”. Vide sua cognata sussurrare tra i denti: “Ma che ci parla a fare
con quello stronzo?!”, ed Eva annuire, con le labbra sul bicchiere. Quelle
labbra. Dei gridolini interruppero la scena».
Quindi dove siamo, in sostanza,
nel reale illustrato? Partecipiamo, forse, alla riunione mensile di un
singolare gruppo di famiglia? Sembra di sì, e il paesaggio, la scenografia in chiave
teatrale, è ricca di importanti segnali di referenze illuminanti, perché di
numerosi hic et nunc materiali inerenti vengono forniti dettagli
minuziosi da non ignorare: un «grande giardino, alle spalle il fitto bosco di
olmi e castagni saliva fino alla vetta della collina che dominava la tenuta. A
sinistra del suo sguardo, oltre la villa, l’aia recintata dove rumorose e
idiote bestioline, dette galline e papere, consumavano la loro misera esistenza
roteando a scatti il collo. In fondo la fetida stalla».
Ebbene, l’Io narrante, a volte,
“sa più” dei personaggi e lo accogliamo nella veste di guida, altrove “ne sa
meno” e, allora, è indispensabile utilizzare un quadro sommario al di fuori di
lui, della casa, della residenza e della parentela, per intendere gli eventi. Certo, nel racconto di Diego Ria un accurato e traslato parallelo
fra significanti e significati o, viceversa, livelli descrittivi (vari e
appropriati) di fedeltà al concreto, nutre l’obiettivo di garantire un pur schematico
senso della storia. Affascinante, nel nostro caso, è piuttosto un meccanismo
semantico circolare e di genere “a scala”, di presente e figurato, nell’equivoco
massimo dell’intravedere, finalmente, un profilo di realtà, grazie a un
intervallo in cui, in effetti, intorno a noi è stato buio completo.
In un analogo pathos delle
vicende combinate a incastro giudico stimolante, inoltre, lo svilupparsi del
discorso di Ria il quale, non prendendo le distanze, per volontà, dalle battute
delle “maschere” in scena – in merito al transito di notizie e opinioni – qui
li smentisce impietoso, là ne giustifica o motiva il ruolo. Nel saggio L’arte come artificio, Viktor Šklovskij ha esordito con le parole
del linguista e storico della letteratura Aleksandr Potebnja: «L’arte è pensiero
espresso come immagini», poi osservando: «La poesia (ma anche la prosa) è
innanzitutto e principalmente una determinata manifestazione del pensiero e
della coscienza».
In sintesi, in Ezio e il campanile, l’autore ha reso possibile condividere con
i lettori la dinamica del riflettere e della “coscienza” personale del suo
«insegnante di cultura mediocre», legato agli «alunni» da «un pessimo
rapporto», che pure con me e con voi è diventato veicolo diretto e sincero di
informazioni colme di dubbi costruttivi. (c.b.)
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaPer quanto mi riguarda, sono completamente d'accordo. Grazie, Mapi.
Eliminaintessante psicologicamente. Molto spesso i genitori, o perché incapaci o per ignoranza non guardano l' " intimo" dei figli con risultati quanto meno negativi. La improvvisa e momentanea cecità di Ezio non fa altro che operare il " transfert" riportandolo ad una vita normale.
RispondiEliminaBel racconto, soprattutto se si considera che l’autore ha alle sue spalle non anni di cultura letteraria ma solo corsi di scrittura creativa ( utili, credo proprio a chi la “ stoffa” ce l’ha e aspetta solo lo spunto perché venga confezionata); se l’intenzione era quella di tracciare i connotati di un protagonista ferocemente antipatico e meschino, c’è riuscito perfettamente: alla fine dispiace , quasi, che la sua punizione si consumi in un arco di tempo così breve. Credo comunque che la perdita temporanea della vista e la fine improvvisa della cecità , siano solo un pretesto : ben più importante è il tema della cecità psicologica e soprattutto emotiva che abbrutiscono l’uomo impedendogli di assaporare la vita anche nei suoi aspetti più semplici. Avere la fortuna di uscire da questa condizione e di poter guardare e gustare il mondo meglio di prima, credo sia per pochi eletti, altrimenti non avremmo il problema di dover fronteggiare ogni giorno grandi e piccole cattiverie, compiute da singoli e\ o da intere collettività. Il contenuto di questo racconto, proprio per questo mi appare come il paradigma di ciò che ci accade introno: forse io ne ho dilatato molto i confini e le intenzioni, ma mi pare che tutti i particolari tratteggiati( peraltro con un lessico essenziale ma molto appropriato) tutta la sequenza di avvenimenti che intesse la trama dl racconto, ruoti proprio intorno a questo cardine umano.
RispondiEliminaSono osservazioni molto accurate, che condivido. Grazie.
RispondiEliminaDirei che, ambientazione e sottofondo a parte, vi è nel racconto una vena introspettiva che riesce a a catturare il lettore nel momento in cui il ragazzino perde, momentaneamente, la vista.E crolla cosi' tutto il suo mondo, i suoi paesaggi..E la riflessione lo induce..a pensare..In fondo, cosi' faremmo noi..Se, folgorati verso la via di Damasco, per un istante perdessimo la vista, forse, costretti ad una improvvisa autopercezione del nostro essere, comprenderemmo..in un istante, il senso vero e la Bellezza delle cose...
RispondiEliminaD'accordo con te, Valentina. Il buio, l'interruzione drammatica, nella poesia e nella vita, sono - come indicato da Ria - un momento essenziale di conoscenza. Grazie.
RispondiEliminaPremetto che non sono una lettrice..... ma ho letto con piacere questo breve racconto che sin dalle prime righe ho trovato molto coinvolgente. La descrizione minuziosa, quasi fotografica dei fatti narrati, permette al lettore di sentirsi protagonista egli stesso, portandolo a leggere "tutto di un fiato".
RispondiEliminaRacconto profondo che fa riflettere sul rapporto tra genitori e figli che non sempre è scontato come può sembrare
Complimenti a Diego!