domenica 15 aprile 2018


Enrico GRAGLIA - “DeathsApp” (racconto breve)

 
 

Lo smartphone squilla nel vano portaoggetti dell’abitacolo. Si illumina lo schermo. Mauro ci butta un occhio, distogliendo lo sguardo dall’autostrada, che corre davanti a lui nella notte. A chiamarlo è Francesco, un amico. Fa scorrere il dito sullo schermo per aprire la chiamata. Quando viaggia tiene quasi sempre gli auricolari, se non ascolta la radio: ovattano piacevolmente il rumore del motore. 
 
«Pronto, France’», dice. «Tutto a posto?».
 
«Tutto bene, ma se non mi faccio sentire io…».
 
«Lascia stare, son stato incasinato tra un lavoro e l’altro». 
 
«Dov’è che sei, ché sento male?». 
 
«In autostrada», alza un po’ la voce Mauro. «Sto rientrando dal weekend. Sono stato un po’ in giro con quella ragazza che ho conosciuto in chat. Sta al mare, così mi sono fatto due giorni da lei». 
 
«Per il resto, tutto okay?». 
 
«Bene bene. Quando ci vediamo?». 
 
«Martedì sera tieniti libero, ché Gianluca ha organizzato per l’addio al celibato di Stefano». 
 
«Ah già, si sposa. Proprio sicuro, allora?». 
 
«Boh, convinto lui. A noi che ce frega, andiamo a fare un po’ di bordello». 
 
«D’accordo, dài. Ci sono».
Un blip dello smartphone lo avvisa che è caduta la linea. Butta di nuovo un occhio allo schermo, che resta illuminato per qualche secondo, e vede che a sinistra in alto è apparso l’avviso verde di WhatsApp, l’applicazione dei messaggi gratuiti: qualcuno gli ha scritto. Prende lo smartphone, che in questo momento non ha campo, e appoggia il polpastrello sull’icona dell’applicazione, che si apre subito.
Guardando un po’ la strada e un po’ lo schermo, Mauro vede che gli ha mandato un messaggio un numero sconosciuto: qualcuno che si fa chiamare DeathsApp. Guarda la foto a fianco del nome per capire se gli dice qualcosa, ma capisce subito che è il fotogramma di un film horror: un bambino cinese con gli occhi tutti neri e la bocca spalancata da un urlo.
“Sarà qualche amico deficiente”, pensa. “Probabile che sia proprio quel simpaticone di Gianluca, lui è fissato con ‘sta roba, che andava di moda dieci anni fa”. 
Apre il messaggio, rallentando l’andatura, perché il traffico in quel tratto è più intenso e inizia a venir giù una pioggerella che rende il fondo stradale viscoso. Legge.
“QUESTA NOTTE MORIRAI”, è scritto in tutte maiuscole nel riquadro del messaggio che apre una nuova conversazione. 
“Cerca di essere più originale”, digita in fretta, con il polpastrello del pollice. “Stupiscimi”. 
Subito appare la risposta: “TI RESTANO CINQUE MINUTI”. 
“Chi sei?”. 
“LA MORTE”. 
“Gianluca, vero?”. 
“NO, SONO LA MORTE”.
Mauro guarda la strada. È indeciso se bloccare quell’utente o proseguire il dialogo, che forse dovrebbe far ridere. Finora, a dire la verità, non gli è sembrato divertente. Si trattiene dallo scrivere un insulto, sempre nel  dubbio di avere a che fare con un amico, anziché uno psicopatico, che in qualche modo ha trovato il suo numero, magari digitando a caso. 
“Dovrei richiamare Francesco”, pensa. 
Lo schermo dello smartphone si è oscurato, così lo sfiora col dito e quello si illumina di nuovo. Legge l’ultimo messaggio di DeathsApp: “VUOI SAPERE COME SUCCEDE?”. 
“Cosa?”, digita. 
“COME MORIRAI”. 
“Chi cazzo sei?”, scrive d’impulso.
 “TI FACCIO VEDERE”.
Sullo schermo appare il riquadro di un video in arrivo, con l’unica immagine visibile molto indistinta. Per scaricarlo, Mauro deve appoggiarci il dito. Esita un attimo, poi lo fa e si avvia il download. È un video di trenta secondi, ma impiega un po’ a essere scaricato. 
Mauro si concentra sulla strada che ha davanti e lo schermo dello smartphone diventa di nuovo nero. Picchietta sul volante con le dita, nervoso. La pioggia si è fatta più pesante, ma il traffico si è un po’ diradato. I tergicristalli vanno e vengono rapidi sul parabrezza. Mauro cerca di nascondere a se stesso che quegli ultimi messaggi gli hanno messo addosso un po’ d’ansia. L’abitacolo gli sembra troppo buio e vuoto. Non è sicuro di voler vedere il video che sta scaricando: su Internet girano un sacco di schifezze. 
Lo squillo dello smartphone nelle cuffie lo fa sobbalzare. È di nuovo Francesco. Quasi sollevato di poter parlare con l’amico, prende la chiamata, facendo scorrere il dito sullo schermo. 
«Era caduta la linea», dice.
«Me ne sono accorto. Richiamare no, eh?».
«Scusa, messaggi». 
«Sempre donne che ti cercano, bravo bravo».
«Macché… Comunque per martedì va bene, ci sono». 
«Oh, tutto a posto?». 
«Certo, perché?». 
«Mah… C’hai ‘na voce! Pare che t’è morto il gatto». 
«No no, niente», si schermisce Mauro. «Tutto bene». 
«Dài, allora ci vediamo martedì».
«Okay».
«Ti chiamo domani per dirti posto e ora».
 «Grazie, ciao France’».
 «E nun fare che poi ce dài pacco, eh?».
 «No no, tranquillo, ciao».
Il silenzio nelle cuffie dell’auricolare gli pesa. Dà un’occhiata allo schermo e vede che c’è di nuovo l’avviso verde, in alto a sinistra. Sorpassa un tir, rientra in carreggiata e guarda cosa gli è arrivato. Il video è stato scaricato ed è pronto da visualizzare. Sotto, c’è un nuovo messaggio di DeathsApp. 

“GUARDA, NON SEI CURIOSO?”.
A fianco della scritta c’è un’emoticon, una di quelle faccette con varie espressioni che accompagnano i messaggi, definendone meglio il tono. Questo ha gli occhi spalancati neri e una selva di denti aguzzi che gli escono dalla bocca, simile a quella di un pescecane. Non l’ha mai visto prima ed è sicuro di aver guardato tutti quelli disponibili nell’applicazione. 
«’Fanculo», mormora, rimettendo lo smartphone nel portaoggetti. 
Resiste alla curiosità per un paio di chilometri, poi lo riprende e preme col polpastrello del pollice sul riquadro del video, che stavolta parte. È una ripresa notturna, confusa. Sembra fatta con un cellulare. Si vede un tratto di strada con un cavalcavia, lungo il quale passano alcune auto. Piove. Dopo una decina di secondi, una delle auto in arrivo si sposta verso il guard-rail, lo urta ed esce di strada, carambolando contro uno dei pilastri di sostegno del cavalcavia. L’impatto è forte. Volano via pezzi dell’auto, che si spargono sulla carreggiata. Chi sta riprendendo la scena si avvicina all’auto accartocciata e ci gira intorno, per andare a inquadrare il finestrino del guidatore, ancora integro. Per un attimo si scorge un riflesso sul vetro, poi l’immagine si schiarisce. Si vede l’interno dell’abitacolo e la faccia dell’uomo, morto sul colpo, occhi e bocca spalancati e mezza faccia coperta di sangue. 
«Cristo!», esclama Mauro.
Lascia cadere lo smartphone, che rimbalza sul sedile del passeggero e poi cade sul tappetino sottostante. Il cavo dell’auricolare pende molle, abbastanza lungo da non rimanere in tensione, nonostante lo smartphone sia ormai fuori portata per Mauro, che sente il cuore martellargli nel petto. 
“Ero io”, pensa. “Quello ero io”. 
Rifiuta di crederci, eppure l’uomo morto nel video aveva la sua faccia. E stava guidando lungo quella che sembrava un’autostrada, di notte e con la pioggia, proprio come sta facendo lui adesso. Tiene le mani salde sul volante. Lo stringe. Guarda fisso la strada, rallentando ulteriormente l’andatura per evitare rischi. Quel video lo ha spaventato sul serio, molto più dei messaggi stupidi che lo hanno accompagnato. Dubita che si possa trattare di un suo amico, che gli scrive, e non riesce a trovare una spiegazione per quella messinscena.  
Un sobbalzo dell’auto, dovuto a una buca nel fondo stradale, fa spostare un po’ lo smartphone sul tappetino e questa volta il cavo dell’auricolare si tende, quasi strappandogli una delle cuffie dell’orecchio. Mauro lo afferra, nervoso, e tira verso di sé per recuperare lo smartphone, come se dovesse ripescarlo dagli abissi dell’abitacolo. Non distoglie lo sguardo dalla strada. Il cavo resta teso. Mauro dà uno strattone e quello si stacca dallo smartphone, incastrato da qualche parte. Seguendo lo slancio, lo spinotto lo colpisce a un occhio. Mauro impreca e, d’istinto, si tira indietro di scatto. Sta tenendo il volante con una mano sola. Perde la presa. L’auto sbanda e colpisce il guard-rail, sollevando scintille.  
Mezzo accecato, Mauro tenta inutilmente di riprendere il controllo. Vede il cavalcavia venirgli incontro, uscendo dal buio e incombendo su di lui. Il tempo sembra rallentare. Mauro schiaccia il freno, ma il fondo è bagnato e l’auto esce di strada, le gomme inchiodate. Mauro grida, o forse sono le gomme che stridono su quell’ultimo pezzo di asfalto asciutto, sotto il cavalcavia. L’ultima cosa che vede è un pilone di cemento armato illuminato dai fari, poi ci sono solo lo schianto e il buio.
 
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            Leggendo la narrativa breve, è sempre utile valutare gli studi semiologici di Algirdas Julien Greimas quando afferma: «Il senso di un testo non è colto al livello della sua manifestazione espressiva, bensì nei modi in cui si genera e si svolge in un processo orientato di conversione: ogni testo è solo l’evidenza e la memoria della sua storia generativa». Nel caso del brano di Enrico Graglia, è un enunciato fondamentale. Deathsapp è, infatti, una short story dedicata a un percorso notturno affrontato in macchina: la drammatica “ultima mèta” coincide con un piano semantico articolato in base all’attestazione diretta - frapposta a tracce di dialogo in atto  - evocatrice del plot per mezzo del point of view del protagonista, diretto testimone uditivo e oculare. Pertanto, la «memoria» indicata da Greimas quale matrice ispirativa di segni e segnali elaborati nelle vicende, collima perfettamente con il reale illustrato in DeathsApp, così che l’iter progressivo del “senso” non debba subire il benché minimo, anche se virtuale, sdoppiamento.
Per tale struttura tecnico-lessicale, la lettura può indurre paragoni del tutto strumentali con alcuni celebri esempi nel repertorio cinematografico consoni al tema, a iniziare da Poltergeist di Tobe Hooper (pur escludendone l’epilogo “positivo”). Risalente al 1982, riportò successo planetario con sequel e serie tv annessa, sviluppando, in una tranquilla famiglia californiana, la vicenda in cui un tremendo tubo catodico inghiotte e tiene prigioniera la piccola Carol Anne. Un’inquietante entità demoniaca, nel territorio a metà tra l’immanente e l’aldilà, trasforma in preda l’innocente bambina per nutrirsi dell’energia spirituale dell’infanzia. Oltre il mosaico peculiare dell’intreccio, il profondo messaggio del popolare film horror consiste nella scelta, compiuta dalla brutale creatura nemica, di adottare proprio il televisore per strappare gli umani alla realtà quotidiana, collocandoli ex-abrupto in un limbo di “non vita”, disertato dal pensiero e da qualsiasi possibilità di autonomia.
Nel movie di Hooper, vincitore del BAFTA Film Award per gli effetti speciali e sceneggiato da Steven Spielberg, una simile versione dello status di spettatore bloccato nei genuini meccanismi intellettuali e, quindi, inibito negli interventi di libera volontà, trovava la più efficace performance. Pochi anni prima, George A. Romero con Zombi (1978) rinveniva nei customers della provincia americana un'analoga inibizione, decidendo di riempire di morti viventi un isolato centro commerciale e lasciando aperto il finale.
Il racconto di Graglia arriva a noi in binari di significante-significato del tutto indipendenti nell’atto della scrittura, non coltivando lo scopo di essere “visto” sullo schermo bensì “letto” nelle pagine della fantasia. La linea associativa proposta è ipotetica e occasionale, inoltre rinnovata nei mezzi espressivi, poiché, trascorsi ormai quasi quattro decenni, è mutata la struttura paurosa e deleteria del crudele “elettrodomestico”, trasferita e installata adesso in uno smartphone criptico e sibillino. Sì, proprio lui, il fedele e itinerante partner, il telefono, appunto mobile, idoneo a collegarsi alla rete di Internet, scambiare messaggi, scaricare video, interagire con parole e immagini. Con DeathsApp, in particolare, il riferimento è all’importante, se non unica, applicazione di messaggistica istantanea diffusa nel mondo, adeguata a soppiantare nei fatti l’arcaico Short Message Service (SMS).
La morte ora viaggia lungo vie aeree, non tramite il doppino di rame né in un cavo di fibra ottica: il terrore non “corre sul filo”, come nel titolo italiano del mitico Sorry, Wrong Number (Il terrore corre sul filo, 1948) di Anatole Litvak, dove il killer assassinava l’invalida Leona (Barbara Stanwyck), non essendo riuscito il marito Henry (Burt Lancaster) a impedirlo avvertendo la consorte per telefono dell’agguato, poiché pentito di aver pianificato l’uxoricidio. Nell’hic et nunc dell’episodio costruito da Graglia, niente è, o sarà più, come in precedenza. Lo scenario delle telecomunicazioni è quello odierno, con gestori e aziende indaffarate ad agitare in superficie un mercato “truccato”, con effimeri passaggi di campo da una compagnia all’altra, apparenti guerre di tariffe, pubblicità ingannevoli, multe dell’authority, massimo spargimento di dati privati. Non dovrebbe stupire se, tra il meteo e la borsa, il porno e il traffico, l’astrologia e le news, anche il presagio di una fine violenta sia affidato alla trasmissione digitale (non analogica o elettromagnetica): in termini espliciti, a una serie smisurata di byte, a una mole impensabile di stringhe numeriche all’altezza di lanciare lugubri avvisi a carattere grafico o raccapriccianti clip.
Il disimpegnato Mauro ha allacciato le cinture, utilizzato con prudenza gli auricolari, mantenendo entrambe le mani strette al volante: ciononostante, non è immune dall’evitare, guidando di notte sull’asfalto bagnato, di badare allo smartphone, «guardando un po’ la strada e un po’ lo schermo». Purtroppo, malgrado simili opportune cautele, il viaggiatore solitario sfida il rischio: compone messaggi, avvia i download, sistema con precisione lo spinotto della cuffia. La conclusione della trama-intreccio della vicenda riservata dallo scrittore al personaggio credo sia quanto di più minimale, magari di poco conto, un uomo possa immaginare nello scatenarsi di una disgrazia estrema. Ed è forse questo il leitmotiv principale del racconto.
Veicolo di un subdolo inaspettato, lo giudicherebbe Cesare Segre, dove è «pericoloso confondere i segnali con i sintomi o gli indizi», come accade al nostro driver, verificandosi così un assurdo trapasso, indotto da una noncuranza, uno “scambio” errato, o una leggerezza, a smentita delle spaventose e oscure minacce trapelate alcuni minuti prima. Il grande Mao Zedong, però, coerente alle suggestioni del concetto orientale di Yin (“nero”) e Yang (“bianco”), nel saggio Sulla contraddizione del 1937 avrebbe giustificato una simile “deviazione” di significato spiegando: «Questa natura contraddittoria esiste in tutte le cose e genera il loro movimento e il loro sviluppo. La natura contraddittoria insita nelle cose è la causa fondamentale del loro sviluppo, mentre il nesso e l’azione reciproca delle cose tra loro rappresentano la causa secondaria».
Ritengo proficuo, ora, introdurre una figura non compresa nel testo di Enrico Graglia, ma in una scia utopica collegabile. È un giovane ucraino cresciuto in pieno periodo sovietico, quando alzare la cornetta implicava essere ascoltati da un numero non quantificato di orecchi sconosciuti. Alludo a Jan Koum, emigrato in California e assunto in Yahoo!, divenendo collega di Brian Acton: la coppia di amici, nel 2009, registrerà il brevetto di What’s App. Nell’aprile del 2013, Google pare voglia acquistarla per un miliardo di dollari. Koum è perplesso: teme le reazioni dei clienti ai quali ha garantito un servizio gratuito esente da spot e advertisement. Un anno dopo, durante una cena con Mark Zuckerberg, l’ideatore di Facebook spinge l’offerta sino a sedici miliardi. Jan Koum esita a vendere l’anima al businessman di turno: nondimeno è la norma, ognuno ha un prezzo, e l’imprenditore dell’est europeo non sfugge alla regola. Il 14 febbraio del 2014, a Palo Alto, nella zona di Crescent Park, Koum bussa a casa Zuckerberg: è San Valentino, Mark e Priscilla festeggiano gustando cioccolato e fragole. L’accordo è fatto.
La notte prima della firma del contratto, sulla strada del rientro, la morte è in agguato: esplode una gomma e la vettura esce dalla carreggiata. Jan rimane vivo per miracolo, perché non è ancora il suo momento. L’incidente non fatale risale all’aprile 2014, a migliaia di chilometri di distanza da noi, in una zona remota del globo, proprio nei giorni in cui Graglia completa la stesura di DeathsApp. Chissà se l’autore del racconto rammenta la coincidenza: di certo, in tal modo, aggiunge al brano una sfumatura perturbante, dove però la sorte e l’agire dei rispettivi protagonisti non sono su un piano equivalente. Rivolgere la stessa domanda “What’s up” (“Come va?”) al Mauro letterario e allo Jan della realtà, potrebbe condurre ovviamente a risposte differenti.
Nel corso del terzo millennio, l’inventore della nuova applicazione “sacrifica” con successo la propria creatura sull’altare del denaro e salva la vita; nell’immaginario di Graglia, viceversa, uno degli svariati, anonimi “utenti” sembra purtroppo aver dovuto cedere quantomeno l’anima al diavolo per meritarsi un traguardo a tal punto tragico e inesorabile. Consiglio di accogliere il monito di Enrico Graglia a non fare altrettanto. (c.b.)

5 commenti:

  1. Premetto che i racconti e i romanzi trihller non rientrano fra i generi narrativi che prediligo, perché il più delle volte mi danno momenti di evasione, ma non di riflessione. Non mi dispiace però stilare un breve commento su quest’ultima “ fatica letteraria”.
    A inizio lettura, la mia impressione è stata quella di avere sotto gli occhi un racconto piuttosto banale, articolato sulla base di un dialogo superficiale tra due protagonisti pressoché anonimi. Poi , procedendo oltre, mi sono resa conto che questa sorte di “ piattume” iniziale era assolutamente funzionale al seguito della narrazione.
    Infatti, in modo sempre più evidente, la narrazione si dipana attraverso una sequenza di momenti via via più ansiogeni, , collegati tra loro da un filo di tensione sempre più tenace. Il ritmo si fa incalzante, pressante, il periodare ha il “ fiato corto” , così come sembra accorciarsi il respiro del protagonista che dall’incredulità iniziale, attraverso passaggi che mi ricordano il meccanismo delle scatole cinesi, passa alla percezione di stati d’animo sempre più destabilizzanti ; in questo caso però, non si procede dall’apertura della scatola più grande per approdare alla più piccola, ma si procede al contrario:prima il nervosismo (scatola piccola) poi uno stato di crescente tensione (scatola leggermente più grande)e poi via via fino al terrore e allo schianto finale( ultima scatola ,” epopea finale “ e dunque , la più grande, che conteneva tutte quelle precedenti ).
    La pecca del racconto, ( pur tenendo conto degli elementi di surrealità in esso inglobati) a mio parere, risiede nella prevedibilità del finale, perché l’attenzione esasperata verso il display dello smartphon,non poteva che coincidere con il calo d’attenzione verso la guida;, bypassando la condizione di concentrazione mentale che essa esige, il protagonista diventa l’unico vero responsabile della sua tragica fine.

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    1. Ottima l'associazione al racconto con gioco di incastri e rimandi all'intelaiatura narrativa delle cosiddette scatole cinesi, tanto amata dai critici della Scuola di Francoforte ("Istituto per la Ricerca Sociale" di Francoforte) e, in particolare, dal grande Walter Benjamin.

      Grazie ad Alice e a Rossella per queste considerazioni.

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