Enrico GRAGLIA -
“DeathsApp” (racconto breve)
Lo smartphone squilla
nel vano portaoggetti dell’abitacolo. Si illumina lo schermo. Mauro ci butta un
occhio, distogliendo lo sguardo dall’autostrada, che corre davanti a lui nella
notte. A chiamarlo è Francesco, un amico. Fa scorrere il dito sullo schermo per
aprire la chiamata. Quando viaggia tiene quasi sempre gli auricolari, se non
ascolta la radio: ovattano piacevolmente il rumore del motore.
«Pronto, France’»,
dice. «Tutto a posto?».
«Tutto bene, ma se non mi faccio sentire io…».
«Lascia stare, son stato incasinato tra un lavoro e
l’altro».
«Dov’è che sei, ché sento male?».
«In
autostrada», alza un po’ la voce Mauro. «Sto rientrando dal weekend. Sono stato
un po’ in giro con quella ragazza che ho conosciuto in chat. Sta al mare, così
mi sono fatto due giorni da lei».
«Per
il resto, tutto okay?».
«Bene
bene. Quando ci vediamo?».
«Martedì
sera tieniti libero, ché Gianluca ha organizzato per l’addio al celibato di
Stefano».
«Ah
già, si sposa. Proprio sicuro, allora?».
«Boh,
convinto lui. A noi che ce frega, andiamo a fare un po’ di bordello».
«D’accordo,
dài. Ci sono».
Un
blip dello smartphone lo avvisa che è caduta la linea. Butta di nuovo un
occhio allo schermo, che resta illuminato per qualche secondo, e vede che a
sinistra in alto è apparso l’avviso verde di WhatsApp, l’applicazione dei
messaggi gratuiti: qualcuno gli ha scritto. Prende lo smartphone, che in questo
momento non ha campo, e appoggia il polpastrello sull’icona dell’applicazione,
che si apre subito.
Guardando
un po’ la strada e un po’ lo schermo, Mauro vede che gli ha mandato un
messaggio un numero sconosciuto: qualcuno che si fa chiamare DeathsApp. Guarda
la foto a fianco del nome per capire se gli dice qualcosa, ma capisce subito
che è il fotogramma di un film horror: un bambino cinese con gli occhi tutti
neri e la bocca spalancata da un urlo.
“Sarà qualche amico deficiente”, pensa. “Probabile
che sia proprio quel simpaticone di Gianluca, lui è fissato con ‘sta roba, che
andava di moda dieci anni fa”.
Apre
il messaggio, rallentando l’andatura, perché il traffico in quel tratto è più
intenso e inizia a venir giù una pioggerella che rende il fondo stradale
viscoso. Legge.
“QUESTA
NOTTE MORIRAI”, è scritto in tutte maiuscole nel riquadro del messaggio che
apre una nuova conversazione.
“Cerca di essere più
originale”, digita in fretta, con il polpastrello del pollice. “Stupiscimi”.
Subito
appare la risposta: “TI RESTANO CINQUE MINUTI”.
“Chi sei?”.
“LA
MORTE”.
“Gianluca,
vero?”.
“NO,
SONO LA MORTE”.
Mauro
guarda la strada. È indeciso se bloccare quell’utente o proseguire il dialogo,
che forse dovrebbe far ridere. Finora, a dire la verità, non gli è sembrato
divertente. Si trattiene dallo scrivere un insulto, sempre nel dubbio di avere a che fare con un amico,
anziché uno psicopatico, che in qualche modo ha trovato il suo numero, magari
digitando a caso.
“Dovrei richiamare Francesco”, pensa.
Lo
schermo dello smartphone si è oscurato, così lo sfiora col dito e quello si
illumina di nuovo. Legge l’ultimo messaggio di DeathsApp: “VUOI SAPERE COME
SUCCEDE?”.
“Cosa?”, digita.
“COME
MORIRAI”.
“Chi cazzo sei?”, scrive d’impulso.
“TI
FACCIO VEDERE”.
Sullo
schermo appare il riquadro di un video in arrivo, con l’unica immagine visibile
molto indistinta. Per scaricarlo, Mauro deve appoggiarci il dito. Esita un
attimo, poi lo fa e si avvia il download. È un video di trenta secondi, ma
impiega un po’ a essere scaricato.
Mauro
si concentra sulla strada che ha davanti e lo schermo dello smartphone diventa
di nuovo nero. Picchietta sul volante con le dita, nervoso. La pioggia si è
fatta più pesante, ma il traffico si è un po’ diradato. I tergicristalli vanno
e vengono rapidi sul parabrezza. Mauro cerca di nascondere a se stesso che
quegli ultimi messaggi gli hanno messo addosso un po’ d’ansia. L’abitacolo gli
sembra troppo buio e vuoto. Non è sicuro di voler vedere il video che sta
scaricando: su Internet girano un sacco di schifezze.
Lo
squillo dello smartphone nelle cuffie lo fa sobbalzare. È di nuovo Francesco.
Quasi sollevato di poter parlare con l’amico, prende la chiamata, facendo
scorrere il dito sullo schermo.
«Era
caduta la linea», dice.
«Me
ne sono accorto. Richiamare no, eh?».
«Scusa,
messaggi».
«Sempre
donne che ti cercano, bravo bravo».
«Macché…
Comunque per martedì va bene, ci sono».
«Oh,
tutto a posto?».
«Certo,
perché?».
«Mah…
C’hai ‘na voce! Pare che t’è morto il gatto».
«No
no, niente», si schermisce Mauro. «Tutto bene».
«Dài,
allora ci vediamo martedì».
«Okay».
«Ti
chiamo domani per dirti posto e ora».
«Grazie,
ciao France’».
«E
nun fare che poi ce dài pacco, eh?».
«No
no, tranquillo, ciao».
Il
silenzio nelle cuffie dell’auricolare gli pesa. Dà un’occhiata allo schermo e
vede che c’è di nuovo l’avviso verde, in alto a sinistra. Sorpassa un tir,
rientra in carreggiata e guarda cosa gli è arrivato. Il video è stato scaricato
ed è pronto da visualizzare. Sotto, c’è un nuovo messaggio di DeathsApp.
“GUARDA, NON SEI CURIOSO?”.
A
fianco della scritta c’è un’emoticon, una di quelle faccette con varie
espressioni che accompagnano i messaggi, definendone meglio il tono. Questo ha
gli occhi spalancati neri e una selva di denti aguzzi che gli escono dalla
bocca, simile a quella di un pescecane. Non l’ha mai visto prima ed è sicuro di
aver guardato tutti quelli disponibili nell’applicazione.
«’Fanculo»,
mormora, rimettendo lo smartphone nel portaoggetti.
Resiste
alla curiosità per un paio di chilometri, poi lo riprende e preme col
polpastrello del pollice sul riquadro del video, che stavolta parte. È una
ripresa notturna, confusa. Sembra fatta con un cellulare. Si vede un tratto di
strada con un cavalcavia, lungo il quale passano alcune auto. Piove. Dopo una
decina di secondi, una delle auto in arrivo si sposta verso il guard-rail, lo
urta ed esce di strada, carambolando contro uno dei pilastri di sostegno del
cavalcavia. L’impatto è forte. Volano via pezzi dell’auto, che si spargono
sulla carreggiata. Chi sta riprendendo la scena si avvicina all’auto
accartocciata e ci gira intorno, per andare a inquadrare il finestrino del
guidatore, ancora integro. Per un attimo si scorge un riflesso sul vetro, poi
l’immagine si schiarisce. Si vede l’interno dell’abitacolo e la faccia
dell’uomo, morto sul colpo, occhi e bocca spalancati e mezza faccia coperta di
sangue.
«Cristo!»,
esclama Mauro.
Lascia
cadere lo smartphone, che rimbalza sul sedile del passeggero e poi cade sul
tappetino sottostante. Il cavo dell’auricolare pende molle, abbastanza lungo da
non rimanere in tensione, nonostante lo smartphone sia ormai fuori portata per
Mauro, che sente il cuore martellargli nel petto.
“Ero io”, pensa. “Quello ero io”.
Rifiuta
di crederci, eppure l’uomo morto nel video aveva la sua faccia. E stava
guidando lungo quella che sembrava un’autostrada, di notte e con la pioggia,
proprio come sta facendo lui adesso. Tiene le mani salde sul volante. Lo
stringe. Guarda fisso la strada, rallentando ulteriormente l’andatura per
evitare rischi. Quel video lo ha spaventato sul serio, molto più dei messaggi
stupidi che lo hanno accompagnato. Dubita che si possa trattare di un suo
amico, che gli scrive, e non riesce a trovare una spiegazione per quella
messinscena.
Un
sobbalzo dell’auto, dovuto a una buca nel fondo stradale, fa spostare un po’ lo
smartphone sul tappetino e questa volta il cavo dell’auricolare si tende, quasi
strappandogli una delle cuffie dell’orecchio. Mauro lo afferra, nervoso, e tira
verso di sé per recuperare lo smartphone, come se dovesse ripescarlo dagli
abissi dell’abitacolo. Non distoglie lo sguardo dalla strada. Il cavo resta
teso. Mauro dà uno strattone e quello si stacca dallo smartphone, incastrato da
qualche parte. Seguendo lo slancio, lo spinotto lo colpisce a un occhio. Mauro
impreca e, d’istinto, si tira indietro di scatto. Sta tenendo il volante con
una mano sola. Perde la presa. L’auto sbanda e colpisce il guard-rail,
sollevando scintille.
Mezzo
accecato, Mauro tenta inutilmente di riprendere il controllo. Vede il
cavalcavia venirgli incontro, uscendo dal buio e incombendo su di lui. Il tempo
sembra rallentare. Mauro schiaccia il freno, ma il fondo è bagnato e l’auto
esce di strada, le gomme inchiodate. Mauro grida, o forse sono le gomme che
stridono su quell’ultimo pezzo di asfalto asciutto, sotto il cavalcavia.
L’ultima cosa che vede è un pilone di cemento armato illuminato dai fari, poi
ci sono solo lo schianto e il buio.
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Leggendo la narrativa breve, è sempre utile valutare gli studi
semiologici di Algirdas Julien Greimas quando afferma: «Il senso di un testo
non è colto al livello della sua manifestazione espressiva, bensì nei modi in
cui si genera e si svolge in un processo orientato di conversione: ogni testo è
solo l’evidenza e la memoria della sua storia generativa». Nel caso del brano
di Enrico Graglia, è un enunciato fondamentale. Deathsapp è, infatti, una short story dedicata a un percorso notturno affrontato
in macchina: la drammatica “ultima mèta” coincide con un piano semantico
articolato in base all’attestazione diretta - frapposta a tracce di dialogo in
atto - evocatrice del plot per mezzo del
point of view del protagonista,
diretto testimone uditivo e oculare. Pertanto, la «memoria» indicata da Greimas
quale matrice ispirativa di segni e segnali elaborati nelle vicende, collima
perfettamente con il reale illustrato in DeathsApp, così che l’iter
progressivo del “senso” non debba subire il benché minimo, anche se virtuale,
sdoppiamento.
Per tale struttura tecnico-lessicale, la lettura può indurre paragoni del
tutto strumentali con alcuni celebri esempi nel repertorio cinematografico
consoni al tema, a iniziare da Poltergeist di Tobe Hooper (pur escludendone l’epilogo
“positivo”). Risalente al 1982, riportò successo planetario con sequel e serie
tv annessa, sviluppando, in una tranquilla famiglia californiana, la vicenda in
cui un tremendo tubo catodico inghiotte e tiene prigioniera la piccola Carol
Anne. Un’inquietante entità demoniaca, nel territorio a metà tra l’immanente e
l’aldilà, trasforma in preda l’innocente bambina per nutrirsi dell’energia
spirituale dell’infanzia. Oltre il mosaico peculiare dell’intreccio, il
profondo messaggio del popolare film horror consiste nella scelta, compiuta dalla brutale creatura nemica, di
adottare proprio il televisore per strappare gli umani alla realtà quotidiana,
collocandoli ex-abrupto in un limbo
di “non vita”, disertato dal pensiero e da qualsiasi possibilità di autonomia.
Nel movie di Hooper, vincitore del BAFTA Film Award per gli effetti speciali e
sceneggiato da Steven Spielberg, una simile versione dello status di spettatore
bloccato nei genuini meccanismi intellettuali e, quindi, inibito negli interventi
di libera volontà, trovava la più efficace performance. Pochi anni prima, George A. Romero con Zombi (1978) rinveniva nei customers
della provincia americana un'analoga
inibizione, decidendo di riempire di morti viventi un isolato centro commerciale
e lasciando aperto il finale.
Il racconto di Graglia arriva a noi in binari di significante-significato
del tutto indipendenti nell’atto della scrittura, non coltivando lo scopo di
essere “visto” sullo schermo bensì “letto” nelle pagine della fantasia. La
linea associativa proposta è ipotetica e occasionale, inoltre rinnovata nei
mezzi espressivi, poiché, trascorsi ormai quasi quattro decenni, è mutata la
struttura paurosa e deleteria del crudele “elettrodomestico”, trasferita e
installata adesso in uno smartphone criptico e sibillino. Sì,
proprio lui, il fedele e itinerante partner, il telefono, appunto mobile,
idoneo a collegarsi alla rete di Internet, scambiare messaggi, scaricare video,
interagire con parole e immagini. Con DeathsApp, in particolare, il riferimento è
all’importante, se non unica, applicazione di messaggistica istantanea diffusa
nel mondo, adeguata a soppiantare nei fatti l’arcaico Short Message Service
(SMS).
La morte ora viaggia lungo vie aeree, non tramite il doppino di rame né
in un cavo di fibra ottica: il terrore non “corre sul filo”, come nel titolo
italiano del mitico Sorry, Wrong Number (Il terrore corre sul filo, 1948) di Anatole Litvak, dove il killer
assassinava l’invalida Leona (Barbara Stanwyck), non essendo riuscito il marito
Henry (Burt Lancaster) a impedirlo avvertendo la consorte per telefono
dell’agguato, poiché pentito di aver pianificato l’uxoricidio. Nell’hic et
nunc dell’episodio costruito da Graglia,
niente è, o sarà più, come in precedenza. Lo scenario delle telecomunicazioni è
quello odierno, con gestori e aziende indaffarate ad agitare in superficie un
mercato “truccato”, con effimeri passaggi di campo da una compagnia all’altra,
apparenti guerre di tariffe, pubblicità ingannevoli, multe dell’authority, massimo spargimento di dati privati. Non
dovrebbe stupire se, tra il meteo e la borsa, il porno e il traffico,
l’astrologia e le news, anche il presagio di una fine violenta sia affidato
alla trasmissione digitale (non analogica o elettromagnetica): in termini espliciti,
a una serie smisurata di byte, a una
mole impensabile di stringhe numeriche all’altezza di lanciare lugubri avvisi a
carattere grafico o raccapriccianti clip.
Il disimpegnato Mauro ha allacciato le cinture, utilizzato con prudenza
gli auricolari, mantenendo entrambe le mani strette al volante: ciononostante,
non è immune dall’evitare, guidando di notte sull’asfalto bagnato, di badare
allo smartphone, «guardando un po’ la strada e un po’ lo schermo».
Purtroppo, malgrado simili opportune cautele, il viaggiatore solitario sfida il
rischio: compone messaggi, avvia i download, sistema con precisione lo spinotto
della cuffia. La conclusione della trama-intreccio della vicenda riservata
dallo scrittore al personaggio credo sia quanto di più minimale, magari di poco
conto, un uomo possa immaginare nello
scatenarsi di una disgrazia estrema. Ed è forse questo il leitmotiv principale
del racconto.
Veicolo di un subdolo inaspettato, lo giudicherebbe Cesare Segre, dove è
«pericoloso confondere i segnali con i sintomi o gli indizi», come accade al
nostro driver, verificandosi così un assurdo trapasso,
indotto da una noncuranza, uno “scambio” errato, o una leggerezza, a smentita
delle spaventose e oscure minacce trapelate alcuni minuti prima. Il grande Mao
Zedong, però, coerente alle suggestioni del concetto orientale di Yin (“nero”)
e Yang (“bianco”), nel saggio Sulla contraddizione del 1937 avrebbe giustificato una simile “deviazione” di significato
spiegando: «Questa natura contraddittoria esiste in tutte le cose e genera il
loro movimento e il loro sviluppo. La natura contraddittoria insita nelle cose
è la causa fondamentale del loro sviluppo, mentre il nesso e l’azione reciproca
delle cose tra loro rappresentano la causa secondaria».
Ritengo proficuo, ora, introdurre una figura non compresa nel testo di
Enrico Graglia, ma in una scia utopica collegabile. È un giovane ucraino cresciuto
in pieno periodo sovietico, quando alzare la cornetta implicava essere
ascoltati da un numero non quantificato di orecchi sconosciuti. Alludo a Jan
Koum, emigrato in California e assunto in Yahoo!, divenendo collega di Brian
Acton: la coppia di amici, nel 2009, registrerà il brevetto di What’s App.
Nell’aprile del 2013, Google pare voglia acquistarla per un miliardo di
dollari. Koum è perplesso: teme le reazioni dei clienti ai quali ha garantito
un servizio gratuito esente da spot e advertisement. Un anno dopo, durante una cena con Mark
Zuckerberg, l’ideatore di Facebook spinge l’offerta sino a sedici miliardi. Jan
Koum esita a vendere l’anima al businessman di turno: nondimeno è la norma, ognuno ha
un prezzo, e l’imprenditore dell’est europeo non sfugge alla regola. Il 14
febbraio del 2014, a Palo Alto, nella zona di Crescent Park, Koum bussa a casa
Zuckerberg: è San Valentino, Mark e Priscilla festeggiano gustando cioccolato e
fragole. L’accordo è fatto.
La notte prima della firma del contratto, sulla strada del rientro, la
morte è in agguato: esplode una gomma e la vettura esce dalla carreggiata. Jan
rimane vivo per miracolo, perché non è ancora il suo momento. L’incidente non
fatale risale all’aprile 2014, a migliaia di chilometri di distanza da noi, in
una zona remota del globo, proprio nei giorni in cui Graglia completa la
stesura di DeathsApp. Chissà se l’autore del racconto rammenta
la coincidenza: di certo, in tal modo, aggiunge al brano una sfumatura
perturbante, dove però la sorte e l’agire dei rispettivi protagonisti non sono
su un piano equivalente. Rivolgere la stessa domanda “What’s up” (“Come va?”)
al Mauro letterario e allo Jan della realtà, potrebbe condurre ovviamente a
risposte differenti.
Nel corso del terzo millennio, l’inventore della nuova applicazione
“sacrifica” con successo la propria creatura sull’altare del denaro e salva la
vita; nell’immaginario di Graglia, viceversa, uno degli svariati, anonimi
“utenti” sembra purtroppo aver dovuto cedere quantomeno l’anima al diavolo per
meritarsi un traguardo a tal punto tragico e inesorabile. Consiglio di
accogliere il monito di Enrico Graglia a non fare altrettanto. (c.b.)
Dialogo surreale e molto coinvogente.
RispondiEliminaDialogo surreale e molto coinvogente.
RispondiEliminaMi trovi d'accordo, Sergio. Grazie.
RispondiEliminaPremetto che i racconti e i romanzi trihller non rientrano fra i generi narrativi che prediligo, perché il più delle volte mi danno momenti di evasione, ma non di riflessione. Non mi dispiace però stilare un breve commento su quest’ultima “ fatica letteraria”.
RispondiEliminaA inizio lettura, la mia impressione è stata quella di avere sotto gli occhi un racconto piuttosto banale, articolato sulla base di un dialogo superficiale tra due protagonisti pressoché anonimi. Poi , procedendo oltre, mi sono resa conto che questa sorte di “ piattume” iniziale era assolutamente funzionale al seguito della narrazione.
Infatti, in modo sempre più evidente, la narrazione si dipana attraverso una sequenza di momenti via via più ansiogeni, , collegati tra loro da un filo di tensione sempre più tenace. Il ritmo si fa incalzante, pressante, il periodare ha il “ fiato corto” , così come sembra accorciarsi il respiro del protagonista che dall’incredulità iniziale, attraverso passaggi che mi ricordano il meccanismo delle scatole cinesi, passa alla percezione di stati d’animo sempre più destabilizzanti ; in questo caso però, non si procede dall’apertura della scatola più grande per approdare alla più piccola, ma si procede al contrario:prima il nervosismo (scatola piccola) poi uno stato di crescente tensione (scatola leggermente più grande)e poi via via fino al terrore e allo schianto finale( ultima scatola ,” epopea finale “ e dunque , la più grande, che conteneva tutte quelle precedenti ).
La pecca del racconto, ( pur tenendo conto degli elementi di surrealità in esso inglobati) a mio parere, risiede nella prevedibilità del finale, perché l’attenzione esasperata verso il display dello smartphon,non poteva che coincidere con il calo d’attenzione verso la guida;, bypassando la condizione di concentrazione mentale che essa esige, il protagonista diventa l’unico vero responsabile della sua tragica fine.
Ottima l'associazione al racconto con gioco di incastri e rimandi all'intelaiatura narrativa delle cosiddette scatole cinesi, tanto amata dai critici della Scuola di Francoforte ("Istituto per la Ricerca Sociale" di Francoforte) e, in particolare, dal grande Walter Benjamin.
EliminaGrazie ad Alice e a Rossella per queste considerazioni.