mercoledì 4 aprile 2018


Marco CAMERINI – “4321” di Paul Auster
 

Mezzo secolo di Novecento americano nell’ultimo, lunghissimo romanzo dello scrittore statunitense Paul Auster. La recensione di Marco Camerini

 
Paul Auster, straordinario narratore nell’immaginario collettivo dei suoi tanti appassionati ammiratori e nel riconoscimento unanime della critica militante (per la sin troppo citata Trilogia di New York, ma anche per gioielli dimenticati come La musica del caso e Il libro delle illusioni), ha scritto un libro di 940 pagine, 4321 (Einaudi, 2017), in cui descrive – ricostruendo con dovizia di suggestioni/citazioni/riferimenti storici, socio-culturali, politici, letterari, musicali, cinquant’anni di Novecento americano – le possibili vite (quattro…ci pare bastino) di Archie Ferguson, nato il 3 marzo 1947 a Newark, New Jersey: come lui, come Ph. Roth che ha contribuito a farne un archetipo geografico della narrativa postmoderna.
Uno degli intrecci più ampi – stavamo scrivendo: lunghi – degli ultimi anni corrisponde a una delle nostre recensioni più brevi, di fatto già terminata. Perché 4321 è lo spunto per analizzare una tendenza della prosa contemporanea – cui l’autore ci sembra abbia ceduto – a comporre una sorta di “romanzo mondo” inclusivo delle molteplici varietà e varianti del dicibile, quasi timoroso di scendere sotto le 450 pagine e ansioso di tradurre in plot narrativo l’accadibile, oltre l’accaduto. Non si tratta certo di una querelle quantitativa (letterariamente/eticamente inaccettabile) che, oltretutto, costringerebbe a mettere in discussione molti classici del secondo ‘800 russo e francese, insieme a un paio di capolavori (clamorosi in questo senso…) del primo ‘900, ma di una breve riflessione narratologica.
Stefano Ercolino, in un recente, autorevole contributo, ricorrendo al termine “massimalista” per definire il romanzo contemporaneo, ne teorizza con lucidità «l’inclinazione ad oscillare tra dominio del caos e potere dell’ordine […] dopo che quello postmoderno il caos lo contemplava attonito» (il rischio di annegarvi e «arrendersi al mare dell’oggettività» lo aveva ben intuito Calvino)[1] «mentre la narrazione primo novecentesca aveva cercato le chiavi per penetrarvi».[2] Categoria critica implicitamente – e sin troppo scopertamente – contrapposta al “minimalismo” carveriano che parcellizza, nei frammentari momenti di una ordinaria ed antiepica quotidianità, la trama narrativa ridotta al suo “grado zero” di referenzialità, non per questo meno capace di restituire un’assoluta pregnanza di senso che sconta un evidente debito con Joyce prima che con il venerato Hemingway.
A questo punto sorprende quanto proprio il citato Calvino, sin dal 1985, avesse felicemente anticipato l’orientamento che stiamo analizzando nelle profetiche Lezioni americane, di cui riportiamo doverosamente un passo fondamentale:
«Tentazione e vocazione della letteratura contemporanea è scrivere il libro che contenga in sé l’universo diventando un’enciclopedia[3] […] il che può identificarsi con il nulla. Decisivo è, invece, per lo scrittore – nel momento in cui ha a disposizione il mondo, una somma di informazioni, di esperienze, di valori – distaccarsi dalla potenzialità illimitata e multiforme del narrabile e decidere di isolare e rendere raccontabile una singola storia nella molteplicità delle possibili».[4]
 
 
In questo senso l’incipit, definito «atto rituale e canonico di individuazione»,[5] costituisce per lui una sorta di gravosa e ardua assunzione di responsabilità (non a caso Se una notte d’inverno un viaggiatore si presenta come un metatesto “per germinazione” di soli inizi) finalizzata a ritagliare/definire “una” storia che non può né deve includere “tutte” le storie ma – semmai, e se vi riesce – una porzione in sé conclusa dell’Universale. Che, nella fattispecie, ad un “oltre” la trama debba assolutamente rinviare è quanto sostiene la scrittrice Flannery O’Connor, secondo la quale la narrativa – che non può non riguardare «tutto ciò che è umano» nella sua sperimentabile concretezza (la linea anglo-americana della prosa novecentesca su questo non transige, al contrario di quella europea) – deve approdare, o tentare di farlo, a una dimensione anagogica «per cui, in una trama, l’accumulo di significato del dato reale fa acquisire valenza simbolica alla vicenda stessa […] in un buon racconto accade sempre di più di quanto riusciamo a cogliere […] ed esso può dirsi riuscito se continua a sfuggirti di mano e puoi vederci qualcosa d’altro».[6]
Ai fini del nostro discorso, questo comporta appunto il doveroso rischio – che Auster in 4321, come altri del resto, non ha voluto correre – di scegliere ciò che si “deve” scrivere, rinunciando a tutto quello che si “potrebbe” scrivere o è “servito” a scrivere: quasi che, per rendere convincente e solido l’esito conclusivo, sia auspicabile, se non necessario, definire minuziosamente i 7/8 del proverbiale iceberg di Hemingway («il materiale che posso eliminare e lasciare sott’acqua perché il mio iceberg sia sempre più solido»),[7] peraltro del tutto estraneo alla noiosa accademia delle teorie della letteratura (solo George Plimpton riuscì miracolosamente – pare con l’aiuto di qualche daiquiri – ad ottenere dallo scrittore memorabili considerazioni teoriche sull’arte di scrivere e narrare raccolte nel testo citato).
Dalle 980 pagine di Paul Auster siamo partiti, con le 5132 della Recherche terminiamo, azzardando un riferimento irriverente per la valenza assolutamente incomparabile delle rispettive opere… si tratta solo di anticipare una possibile e legittima obiezione. Senza pretendere di affrontare dal punto di vista critico la questione, ci limitiamo a sottolineare che Marcel Proust, nell’avventura interiore più esclusiva ed estrema che un lettore possa vivere, non ha “incluso”, ma “escluso” tutto. Circoscritto un momento ben preciso nella «pluralità dell’indifferenziato, ha cercato il Cosmo dentro di sé»:[8] se lo ha dilatato in tempi e modi mai emulati è grazie a un irripetibile talento narrativo, vero “dono” (termine caro alla O’Connor) della Letteratura destinata a rimanere.
Come, per tornare a Hemingway, Vecchio al ponte, uno dei Quarantanove racconti. Sessantacinque righe… 

 
Paul Auster
4321
trad. di Cristiana Mennella
Torino, Einaudi, 2017, pp. 944, € 25,00 


[1] ITALO CALVINO, “Il mare dell’oggettività” in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980.
[2] STEFANO ERCOLINO, Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015.
[3] Nostro il corsivo.
[4] ITALO CALVINO, Lezioni americane, Mondadori, Milano 2002, passim pp. 137-156.
[5] “La storia della letteratura è ricca di incipit memorabili, mentre i finali che presentino una vera originalità come forma e come significato sono più rari, o almeno non si presentano alla memoria così facilmente”, ivi, p. 153. Proprio all’importanza dell’incipit “dove tutto ha inizio”, ha dedicato interessanti riflessioni lo scrittore JAMES SALTER nel saggio pubblicato postumo L’arte di narrare, Guanda, Milano 2017 (cfr. in particolare pp- 46-47).
[6] FLANNERY O’CONNOR, Nel territorio del diavolo, Minimum fax, Roma 2016, pp. 44-45 e 64-65.
[7] ERNEST HEMINGWAY, Il principio dell’iceberg, Il melangolo, Genova 1996, p. 61.
[8] ITALO CALVINO, Lezioni americane, cit., p. 143

Nessun commento:

Posta un commento