Cinzia BALDAZZI - Agatha Christie al
Teatro Quirino: Dieci piccoli indiani
«Ma
tu saresti capace di commettere un omicidio?». «Oh no!», replica l’altro con
molta nonchalance: «Avrei troppa paura di essere scoperto!». È lo stralcio,
letto in gioventù, di un colloquio tra due amici ospiti della fantasia
vastissima di Agatha Christie, popolata di significati ricchi di segni-segnali trasversali.
In
attesa di apprezzare al Teatro Quirino, a Roma, la messa in scena del suo capolavoro
Dieci piccoli indiani, nel progetto
artistico di Gianluca Ramazzotti e del regista spagnolo Ricard Reguant, ragiono
su simili considerazioni ancora limpide e distinte nella mente, senza aver
smarrito le perplessità emotive in me allora causate: in realtà, all’epoca collegai
il contesto all’impresa di un bambino il quale non sottrae dalla dispensa la
golosa marmellata per l’angoscia del castigo materno; oppure, a un adolescente il
quale si guarda bene dall’usufruire di nascosto dell’autovettura del genitore, temendo
di subirne l’ira o di rimanere implicato in incidenti per scarsa esperienza
nella guida.
Con
lo scorrere degli anni, la maturità morale e storico-sociale acquisita ha
consentito ulteriori elementi di giudizio, allargati nella pertinenza e nella
pratica vissute: avverto comunque di voler indagare il perché sia colpita tutt’oggi
da quella risposta. Suppongo il movente
sia insito nell’aver percepito come il personaggio non apparisse scandalizzato
dal quesito, o al minimo spiazzato: evitava del resto di citare a sostegno (in
un eventuale deterrente al reato) un principio di δεοντολογία (dal greco deontología, “gerarchia dei doveri”), oppure
una formula filantropica, o attinente al libero rispetto del diritto penale, e nemmeno
un dignitoso scrupolo di legittimità umana. Mostrava di soffrire solo la
minaccia di morte, in quanto in Gran Bretagna, nel periodo compreso tra il 1920
e il 1940, era in vigore l’impiccagione.
Sedendo
in platea, però, sono orientata a concentrarmi sull’indiscussa certezza che il
genere del giallo, ovunque si sviluppi,
non ha mai preteso, né programmato, di coincidere con un trattato di etica. Ne
trovo conferma, sebbene transitoria, dopo l’ingresso dei protagonisti nella
dimora isolana del fantomatico Mr. Owen, quando un grammofono diffonde con tono
intimidatorio il messaggio del padrone di casa: ciascuno dei dieci invitati è
accusato di un delitto impunito commesso tempo addietro, tacendo l’urgenza
delle prerogative garanti della coscienza. Dunque, nonostante i malfattori
spesso siano smascherati e inquisiti dalla legge in seguito ad avvincenti investigazioni
tipiche dei thriller e delle police stories, questa circostanza non è
una regola a priori: ne sono esempio, nel microcosmo della Christie, alcuni
episodi dei romanzi sul detective Hercule Poirot.
La
voce narrante onnisciente costruisce una trama intessuta chissà da chi con
l’incarico di portare a termine il “non adempiuto” dall’ordinamento poliziesco e
dal tribunale. Nella pièce in
procinto di iniziare, nella sala romana affollata, la tensione creativa in atto
presumo sarà riconoscibile nel fluire necessario delle elleniche δίκη (“condanna”)
e τιμωρία (“punizione”). Si apre così il sipario su un allestimento fedele dell’originario
novel, in grado di riscuotere,
durante la stagione precedente, un enorme successo a Madrid e a Barcellona, ritengo
anche grazie all’intento di elaborare un approfondito e raffinato point of view psicologico delle figure condotte
dalle pagine del romanzo sulla ribalta, in primis dall’autrice medesima: «Sembra
quasi una vendetta della stessa Christie», ha precisato Reguant, «verso una
classe dirigente nella società inglese in cui la stessa scrittrice vive
agiatamente e dalla quale vuole evadere costringendosi a diventare lei stessa
la carnefice verso i suoi personaggi».
Emerge
appunto un’atmosfera di riflessione, sul tema della coscienza e dell’etica codificata,
intorno alla questione riguardante i misfatti biasimati o giustificati: la rete
comune è coinvolgente poiché, in chiave specifica nell’èra contemporanea, le suggestioni
in tale ambito risultano impegnative, in particolare nell’assumere gravi decisioni
di “giustizia privata” in mancanza di misure esecutive istituzionali adeguate.
Non è un paradigma robusto, anzi, è piuttosto una fragile cornice
interpretativa (non esente da antinomie), in un’area psicoanalitica e
sociologica dove letteratura e drammaturgia dell’abilissima caposcuola del thriller, proveniente dalla contea del
Devon, hanno riscontrato, già molti anni orsono, un inquietante terreno
semantico.
Ecco
quindi, ad opera dello scenografo Alessandro Chiti, l’immaginario approdo nella
lussuosa living room di una villa dal
canone architettonico peculiare dell’edilizia tra le due guerre, a metà tra il
funzionalismo degli altissimi finestroni di ferro-vetro e la monumentalità imperiale
della scalinata di marmo chiaroscuro. La dinamica dell’intreccio nella vicenda,
affidata a una performance tutta frontale del cast (in onore al concetto della
“quarta parete” di una mise-en-scène),
è disposta su un piano doppio, al di sopra e al di sotto dei gradini. Ascolto
il commento schietto dello scapestrato Marston (Leonardo Sbragia), ben consapevole
di sperimentare una sorta di meta-teatro, tramutato in uno spazio di meta-indagine,
con detective in campo, a fasi
alterne o simultanee, tra le poltrone del pubblico o sul palco: «Questa storia
è un giallo. Ed è anche assolutamente eccitante. Io brindo al crimine».
Nel
giro di pochi secondi cade a terra senza vita, ucciso dall’arsenico mescolato
allo champagne. Uno dopo l’altro, gli ospiti verranno assassinati: ogni volta
scomparirà una delle statuette collocate sulla mensola di una sospetta colonna
di basalto scuro, con le strofe luminose di una filastrocca infantile, a
ricordare il destino imminente di ciascuno. La compagnia è addestrata ad hoc a sostenere colpi di scena (e di
pistola…): tra gli attori citiamo, in virtù dell’articolata carriera tra le
quinte, Carlo Simoni nei panni del dr. Armstrong, Luciano Virgilio nel ruolo
del giudice Wargrave, Ivana Monti come Emily Brent.
Nella
rappresentazione di Dieci piccoli indiani,
sino al calare della tela, domina il bianco e il nero delle luci (curate da
Stefano Lattavo) e dei costumi (firmati da Adele
Bargilli), nonché riproposto nei moduli decorativi e nelle strutture interne: in
platea, quindi, in maniera utopica trapela ora evidente l’assurdità di
rintracciare ordini indiscutibili, al di fuori di errori valutativi di
qualsiasi natura.
Nel
consenso degli applausi e mentre esco in strada, con ancora davanti una
duratura gamma cromatica dove non sono state scelte sfumature coloristiche “di
mezzo”, complementari o allettanti, stimo notevole più che mai l’omaggio degli autori-interpreti
dello spettacolo a un’idea centrale: espiare la pena obbiettiva del male
attuato, ribadita e non oggetto di sotterfugi, compromessi o vie d’uscita
insoddisfacenti.
Dedicato a mia zia Gina, esigente e assidua lettrice
dei Gialli Mondadori.
Dieci piccoli
indiani… E non ne rimase nessuno!
di Agatha Christie
traduzione Edoardo
Erba
progetto artistico
di Gianluca Ramazzotti e Ricard Reguant
con Giulia Morgani (sig.ra
Rogers), Tommaso Minniti (sig. Rogers), Caterina Misasi (Vera Claytorn), Pietro
Bontempo (cpt. Lombard), Leonardo Sbragia (Anthony Marston), Mattia Sbragia
(Blore), Ivana Monti (Emily Brent), Luciano Virgilio (giudice Wargrave), Alarico
Salaroli (gen. McKenzie), Carlo Simoni (dott. Armstrong)
scene Alessandro
Chiti - costumi Adele Bargilli - luci Stefano Lattavo - direzione tecnica
Stefano Orsini
regia Ricard Reguant
produzione Gianluca
Ramazzotti per Ginevra
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