domenica 21 gennaio 2018


Claudio CAMERINI - “Versi e colori sulle orme del tempo”: un happening 

 

Per definire l’evento “Versi e colori sulle orme del tempo”, organizzato a Lettere Caffè a Roma lo scorso venerdì, non trovo termine più efficace di quello di happening. L’espressione nasce assai presto, a fine anni ’50, per descrivere una forma di intrattenimento (teatro, poesia, arte) in cui differenti elementi vengono posti in successione, quasi in una sorta di “montaggio”, con collegamenti a volte alogici ma in una struttura a moduli.
A Lettere Caffè, dodici poeti e altrettanti pittori si sono dati appuntamento per commentare, con quadri e poesie, i mesi dell’anno: in una successione serrata, si è tentato - come nella migliore delle tradizioni - il riavvicinamento tra arte e vita, la possibile coesistenza tra l’effetto benefico delle “belle arti” e la dimensione effimera e mutevole del quotidiano ordinario.

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I poeti Carla Staffieri, Arduino Cialli, Pasquale Rea Martino, Angelo Mancini, Nadia Pascucci, Valerio Di Paolo, Concezio Salvi, Angela Greco, Donatella Calì, Maurizio Pochesci, Flavia Polverini, Alessandra De Michele, hanno sistemato i propri versi nel calendario. Gli ultimi quattro, in aggiunta agli artisti Gianpaolo Berto, Pino Reggiani, Oriana Cammilli, Claudio Morleni, Maria Sole Sollazzi, Patrizio Colucci, Luigi Barbaresi, Alberto Salvi, hanno disposto acquerelli, matite, olii e tecniche miste lungo il percorso.
Il recital poetico dell’autore ha avuto a corredo le note critiche di Cinzia Baldazzi. Sulla superficie delle tele e nelle onde delle sculture hanno trovato eco le note pop-rock della cantante Flavia Polverini accompagnata dalla chitarra elettrica di Alessandro Lauri. 

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Una piccola ma consistente squadra di “poeti ospiti” ha affiancato i “poeti del calendario”: Umberto Donato Di Pietro, Paola Capocelli, Nicola Foti, Claudia Monteiro De Castro, Fabrizio Trainito, Mapi.
E poi, come ogni happening che meriti tale nome, vi ha trovato spazio l’imprevisto, inteso non nel senso di sorpresa estemporanea, non pianificata, bensì sotto forma di “regalo” confezionato dagli organizzatori (Maurizio Pochesci, Donatella Calì e la stessa Baldazzi) per l’uditorio del momento, come un paio di doverosi “omaggi” tributati a persone più o meno lontane (dall’Inghilterra alla Campania…).
Qui di seguito proponiamo le tappe salienti della serata attraverso le letture poetiche e i commenti, cominciando con un singolare incipit che ha avuto lo scopo di “rompere il ghiaccio”.    

 


Adriano Camerini
All’inizio degli anni ’80 io non ero ancora nato, però, da appassionato di cinema, so che all’epoca le ragazze, ma anche le trentenni e le quarantenni, erano innamorate di Tom Cruise. Qualche anno prima, impazzivano per John Travolta, quando ballava in Saturday Night Fever, Grease e Staying Alive.
Bene, di lì a poco, nel giro di qualche anno, ce li ritroviamo tutti e due paladini del movimento filosofico e religioso fondato da Ron Hubbard. Tuttora, entrambi sono i vip più fedeli e impegnati nella diffusione di Scientology: fenomeno assai discusso, definita “la religione più costosa della terra”, ma comunque una realtà di cui tener conto.
Per il nostro attore, Scientology ha avuto importanza anche a livello personale: la prima moglie di Tom Cruise, Mimi Rogers, lo ha in qualche modo “iniziato” e introdotto. Tre delle sue più famose compagne, ovvero Nicole Kidman, Penelope Cruz e Katie Holmes, dopo la rottura con lui hanno abbandonato Scientology.
Perché ve ne parliamo? Perché domani, sabato, a Londra, l’associazione Gli Amici di Ron organizza Il Caminetto Poetico, un pomeriggio dedicato a tre poeti italiani con i loro libri. In uno di questi, la raccolta di Nunzio Buono, è personalmente coinvolta Cinzia Baldazzi, avendone scritto la post-fazione. Poiché lui leggerà a Londra alcuni brani del suo scritto, Cinzia ha pensato di ringraziarlo in anticipo facendo recitare qui una sua poesia. Oggi Tom Cruise ha 55 anni, ma vi assicuro che, se mia madre avesse avuto la certezza della sua presenza domani pomeriggio a Londra, sarebbe già partita. 

La lettura dei versi di Nunzio Buono è stata affidata a Pasquale Rea Martino.

 

RIFLETTO IL FIUME
di Nunzio Buono
 

La percezione del mio andare

come dopo le virgole

quando sosto l'attimo e seguo.

 

Penso a quel treno

che passato appena è già distante

e ai tuoi occhi nel mio paesaggio portato via.

 

Mi sono fermato

in quegli spazi di pensiero catartico

le cinque dita ferme in un arrivederci sono già un addio.

 

In quelle parole non dette

restano le mie poesie

a chi, se ne va da un giorno di nebbia

per tornare dal sole.

 

Svuoto il fiume dal mio ascolto

avanzo, nel silenzio dei tuoi occhi

 

in questo mio andare lontano.
 

Dalla sua post-fazione al libro Voli a matita di Nunzio Buono, Cinzia Baldazzi ha letto alcuni passi. 

Cinzia Baldazzi
Andare oltre, molto oltre, è l’impulso provato nel leggere le poesie di Nunzio Buono. Avverto una sorta di eco, non di matrice crepuscolare ma energica, ricorrente, quasi fosse lì a rammentare la necessità di un confronto ininterrotto tra illusioni già infrante e un’indulgente ironia verso di noi, a lato delle creature amate.
Contro le apparenze, superando la siepe stabilita dall’opportunismo per censurare ogni sconfinamento, l’atmosfera del nostro Buono è omogenea a un panorama poetico visionario.
Dal contesto non emerge però alcuna qualità astratta, vuota e infeconda. Anzi, l’autore promuove tappe di un cammino spirituale in un’infinita eredità dell’intramontabile Canto leopardiano: è una meditata selezione di motivi concreti e significativi, rintracciati in sviluppate allusioni all’altezza di rivelare la dimensione intima e storica, tecnico-semantica e razionale dell’artista.
La sua antologia poetica spinge ad andare oltre le norme di lettura del reale, consolidate per ragioni di comodo o abitudini ratificate, poiché permette, cogliendone l’impianto pragmatico ontologico suggerito dall’ambiente e dalla collettività, di situarsi al centro di una rete profonda, sterminata e misteriosa di armonia.

Seguendo l’ordine del libretto pubblicato, e quindi la successione dei mesi, ogni poeta è stato brevemente presentato dalla Baldazzi e invitato quindi a leggere i propri versi. 

 

GENNAIO

ALESSANDRA DE MICHELE
 

Nel 2005, davanti a una folla raccolta nell’auditorio, all’Università di Stanford, vicino San Francisco, una celebrità mondiale pronunciava con sicurezza queste parole: «Il nostro tempo è limitato». Un incipit dall’eco purtroppo epifanica di morte prematura. L’oratore esortava ad ascoltare segnali e presagi del cuore: «Non dobbiamo sprecare il tempo vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il cuore e l’intuito. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto, è secondario».
 
A parlare non era un poeta, interlocutore privilegiato dei linguaggi del pathos delle emozioni, e neanche un pittore immerso nelle figure, bensì un gigante dell’informatica, imprenditore e inventore statunitense: Steve Jobs, fondatore della Apple, nel cuore - nel senso anche topografico del vocabolo - della Silicon Valley californiana.
 
Ecco, nell’amore di Alessandra De Michele per l’arte in tutte le sue forme, per la vita stessa e per l’umanità, non finirà mai di sorprendere la coinvolgente voce del “cuore”, tra versi e colori sempre in funzione primaria: una fonte esistenziale e ispirativa da tenere presente nel progredire dei giorni, quando parla di una «lacrima / che trafigge il cuore»; e anche nella sfera conoscitiva, al fine di non smarrirsi in contesto freddo e ostile: «il grido disperato di una bimba bionda / che si perde nell’immenso / Del suo cuore smarrito».
 
Del resto, nel nostro Rinascimento, Leonardo Da Vinci già affermava: «Ogni nostra cognizione, principia dai sentimenti».
 
Può accadere, però, di rabbrividire nella solitudine e nello sforzo di superare gli ostacoli: allora, per la De Michele, «la magica notte» giunge come pausa propizia. Nel Fedro platonico leggo: «L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania, e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza». È la ricerca della De Michele: «Afferro ogni possibile filo / Che mi tenga viva fino al risveglio!».
 
La spiritualità di Platone, filosofo delle idee per eccellenza, appare quasi messa a tacere: l’anima è «invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere».
 
Un simile stato di grazia è così reso da Alessandra: «Il tuo pensiero / Soffia dolce, a questo cielo, / Che cerca di ritrovare i miei anni». Concludo con Platone: «Oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore».
 

La mia infanzia
di Alessandra De Michele
 

Dietro la porta, rumori lontani,

occhi tristi di una tenera età,

cullavo i sogni nell’erba bagnata.

Il profumo della terra mi era stato amico.

E come una primula, che si affaccia al sole,

volevo vivere la trepida attesa degli anni.

Vacillavo spesso.

Rotolandomi in silenzi privi di respiro;

i gelidi inverni,

erano lunghi per le mie mani screpolate.

Tu non puoi sapere,

dell'oscurità che circonda la mia mente

e nemmeno ascoltare:

il grido disperato di una bimba bionda…

che si perde nell’immenso….

Del suo cuore smarrito.

 

FEBBRAIO

ANGELO MANCINI 

 
Nella poetica di Angelo Mancini è come se, nella giostra di Carnevale, rivivesse la vita intera. Nei versi, troviamo l'intero senso del gioco, e della festa, simboli complessi e intricati tra loro fin dall'alba dell'umanità. Nel gioco - la παιγμιά degli Ellenici e il ludus dei latini - è coinvolto lo spirito dell’essere, e non del dover essere. Riscopriamo noi stessi, in una libertà senza imposizioni o comandi autoritari. Il Carnevale non scorre secondo le modalità della vita ordinaria, la sfera d’azione è temporanea: si trasgredisce l’ordinario, benché si verifichi una trasgressione parziale, in quanto risulta strumentalmente, entro certi limiti, concessa dal sistema.

Come insegna il filosofo Michel Foucault, in tale ambito la letteratura, nell’uscire dalle righe ordinarie, oltrepassa il limite: il passaggio, però, non riguarda i contenuti del discorso, ma il divenire essi stessi, con regole ex-novo, discorso e opera letteraria. Ed ecco, fin dalla prima immagine, la “trovata” di Mancini: nelle strade dove le mascherine si tirano coriandoli, passa un corteo funebre.  L'idea della festività nel suo contenuto è legata da sempre a quella di morte: dunque, il suo essere alternativa ne trascende il dato fenomenico e storico per divenire simbolo poetico, cosciente e ulteriore.

Lo studioso Stefano Catucci, nell’introduzione a Foucault, parlava di una «dimensione di interiorità che ha permesso all’uomo moderno di tracciare in se stesso il discrimine fra la coscienza e l’inconscio, fra il lecito e il proibito». Tra il bene e il male, il riso e il pianto, così siamo condotti a una presa di coscienza austera e inappellabile, dove la forza motrice originaria dell’insieme, trascendente e divina, terribile e potente, è compagna del “ridere” di se stessa. È la complicità tragica e angosciosa del futurismo di Palazzeschi, in Mancini in qualche misura anche neodadaista e pop.

Trapelano, dunque, echi di una ricerca ansiosa di natura filosofica, non pragmatica e immediata, ma carica di indizi conoscitivi di stampo critico. Ecco, in Funerale a Carnevale, i bambini mascherati con il loro riso disinibito e liberatorio, dinanzi al dolore da smentire. Mentre, non a caso, ne L'assassino che ride, la conclusione rappresenta con segni grafici la sonorità fonetica di una bella risata: è l'atteggiamento liberatorio del principio di piacere oltre la morte. E come in quel vecchio film, alla fine, “tutti risero”. 
 

Funerale a Carnevale
di Angelo Mancini

 

Carnevale! Carnevale!

Sta passando un funerale...!

Sta passando un funerale?

Carnevale! Carnevale!

Quanta gente, quanta gente

si ritrova al funerale!

C’è chi piange, c’è chi ride,

a un signore duole un dente

e quell’altro sta pensando

che gli scade una cambiale.

Chi scrutacchia nei negozi,

chi ha bevuto molto vino

e parlotta col vicino.

Quanta gente, quanta gente

si ritrova al funerale!

Carnevale! Carnevale!

Sta passando un funerale!?

Ed intanto ecco arrivare

dei ragazzi mascherati:

c’è Pierrot Zorro Arlecchino...

come gode quel bambino!

Son felici, elettrizzati,

e si lanciano coriandoli

e colorano di gioia

tutto ciò che li circonda...

miei signori, questo è un sogno,

non c’è spazio per la noia!

Carnevale! Carnevale!

Sta passando un funerale...

così scuro, così nero...

che mistero, che mistero

questa vita surreale

dai molteplici colori...

e mi metto ad osservare

sulla scena i tanti attori,

la follia che è nella gente...

mi sto proprio divertendo,

ogni cosa è originale,

che spettacolo stupendo

ci propone questa vita!

Non ci si capisce niente:

tutto è assurdo, incoerente...

E un teatro straordinario

che incomincio ad apprezzare;

or ne son certo, sicuro...

e vi prego, vi scongiuro,

non calatemi il sipario...

non calatemi... il sipario...

 

MARZO

VALERIO DI PAOLO
 

Valerio Di Paolo spesso comunica al lettore una visione tragica e spietata della vita, con personaggi crudi, senza una via d’uscita alternativa al baratro. È un mondo popolato da situazioni di abbandono, disperazione, violenza imperdonabile, che rasentano utopicamente l’universo tragico di Sofocle, secondo il quale «il dolore più acuto è quello di riconoscere noi stessi come l’unica causa di tutti i nostri mali».

È come se davanti a noi, a lui, ai protagonisti, apparisse una specie di risacca di tutto il sofferto, in grado di invadere e inondare di se stessa l’intera anima, in una lunghezza d’onda paragonabile alla convinzione del grande drammaturgo ateniese del V secolo a.C.: «Non siamo responsabili delle nostre azioni e neppure delle nostre intenzioni, ma della riflessione su ciò che abbiamo fatto». Ritengo assai inquietante l’attitudine di Valerio a collocarsi in una direzione in cui non può giungere alcuna risposta sul male, diversa da una sua tremenda ineffabilità.

Nondimeno, ben presto ho percepito la possibilità concreta di disegnare il quadro completo: ho scoperto quanto un simile “pensare” metalinguistico fosse in grado, nonostante la realtà nemica, di contrastare il “già stato”, per fare in modo che non si ripeta. Alludo al determinarsi della τύχη, o sorte greca, anzi meglio, alla μοῖρα, la parte di vita assegnata a ciascuno. I versi di Valerio, quindi, soprattutto dinanzi a tradimenti e abbandoni, sono all’altezza di compiere un “salto” alternativo vitale, in confronto ai criteri e alla forza di un ripensamento effettivo dell’essere.

Valerio Di Paolo, però, compone anche liriche di sconfinato amore. Come accade? Solo se siamo sempre pronti ad ascoltare l’appello delle parole di poesia, poiché in esse esiste, di fatto, una speranza di salvezza finale a dispetto delle avversità: essa è situata nel salto quantitativo e qualitativo dell’esserci, il Daisen dell’Essere e tempo heideggeriano, dove il “ci” - nella traduzione di Piero Chiodi - non allude solo a una localizzazione spaziale.

Piuttosto, il riferimento è a qualcosa di più ambiguo e complesso che, in Valerio, genera un singolare training poetico capace di costruire lunghi e saldi ponti da percorrere per superare distanze imponenti o insostenibili: è la strada per far volare un aquilone e lasciarlo al proprio destino. Con i termini di nuovo presi in prestito da Martin Heidegger, questi versi sarebbero scritti nella collettività umana e sociale: ovvero, nelle modalità in cui l’Essere si dona alla storia, nell’esistenza umana.

 

Acquerello
di Valerio Di Paolo

 

Sei arrivata di marzo con una valigia di cartone

dentro portavi un pezzo di novembre e un batticuore.

Eri piena di nuvole che a fatica si sono spostate,

poi è comparso un sole piccolo, tutto per noi.

Eri una falena posata sulla mia camicia

volevo vedere la tua bocca sporca di gelato

sei solo riuscita a macchiare le tue ali con i colori della primavera.

Siamo rimasti per ore seduti su quella nuvola di zucchero filato

c’era solo la chioma di un tiglio a separarci dal cielo,

ma ho visto tanti azzurri.

C’era persino un canto di cicale lì,

proprio dietro l’angolo di marzo.

Tu sapevi di arance e di more

la tua grazia se ne stava nelle mie mani come uno scricciolo

nel rovo delle more di prima, nel profumo delle arance.

È piovuto appena un po’,

poche gocce per mettere rugiada sui tuoi fiori.

Siamo rimasti ancora un po’ a tenere il filo a un aquilone,

poi il filo si è srotolato lentamente in cielo,

si è sciolto in una lacrima.

Sulla panchina di quel parco è rimasta

seduta, sola,

una rosa in un bicchiere.
 

APRILE

DONATELLA CALÌ
 

Le allegorie tracciate sul sentiero interiore dalla simbologia poetica, e quelle nella pittura, tra ombre e maschere, fanno parte dello stesso viaggio cognitivo e propedeutico: la poesia di Donatella Calì è infatti straordinariamente coerente con la sua pittura. I suoi quadri narrano storie, magari anche più di una, in diverse parti della tela. Le sue poesie, d’altro canto, costruiscono immagini, pittoriche e filmiche. La pittura racconta, la poesia raffigura. Il critico Paolo Balmas ha scritto di lei: «Se ci si ferma a guardare, la Calì ti costringe a leggere».

Nelle poesie scelte da Donatella, il tempo scorre, e il lume dell’esistenza, della parola, delle visioni, si accende e si spegne. L’esperienza dell’arte figurativa entra con delicatezza nelle strofe, evoca al lettore una scala cromatica specifica: ecco l’ombrello blu, quasi la citazione di un famoso film della nouvelle vague, girato nel ’64, Gli ombrelli di Cherbourg (Les parapluies de Cherbourg) del regista Jacques Demy: nel lungometraggio, i colori pastello utilizzati sono infatti molto accesi. Ma non dimentichiamo il verso sulla «pozzanghera rosso sangue», espressione presente nel racconto di Vladimir Nabokov Una risata nel buio. Il protagonista ha il nome emblematico di Albinus: è un critico d’arte, e coltiva l’idea di avvalersi del mezzo cinematografico per animare quadri famosi, dare vita e sviluppare gesti e movimenti dei personaggi in campo.

Analogamente, si muove l’universo semantico poetico di Donatella Calì: di metafora in metafora, le ombre si allungano nei versi quasi fossero pensieri in progress, da un input al successivo, transitando con rapidità sorprendente, inquietante.

Ora vorrei menzionare William Blake, poeta e pittore inglese tra il Settecento e l’Ottocento. L’artista non amava tenere isolati tra loro il freddo rigido e l’ombra calda. Donatella è su questa scia, perché li mette a confronto, anzi a contrasto, misurando la freddezza del bianco e nero con chiazze di rosso, giallo e arancione. Ciò accade anche nella produzione poetica: i colori divengono profumi e hanno uno spessore di “piuma”.

Nel contrasto tra la vita e la morte, l’immaginario e il concreto, la terra e l’acqua che scorre, non esiste una corrispondenza scontata, come appunto è osservato da William Blake: il pipistrello è nero e preferisce l’oscurità alla luce, ma il suo aspetto pauroso non si mimetizza nel buio delle tenebre, anzi, ne emerge ancor più incombente. 
 

La pioggia d’aprile
di Donatella Calì

 

Non ti sei accorto?

Oggi la pioggia ero io,

noi e il tempo dileguato,

perso nei miei occhi persi nel fango

La pioggia ero io,

ero l‘acqua che bagnava le tue mani,

scivolavo dal tuo ombrello blu

cadendo sul tuo volto,

piangevo con i tuoi occhi.

Pioggia di Aprile come frammenti di specchi

Luccicanti… penetranti,

come piccole lame attraverso la mia pelle.

Mille visi riflessi,

colorati dalle luci della sera,

in un mondo senza sonno.

L’acqua cancella le impronte

dei miei passi e dei tuoi.

Hai visto galleggiare Il mio cuore,

era dentro una pozzanghera rosso sangue

mentre ti voltavi e andavi via.

  

MAGGIO

MAURIZIO POCHESCI
 

Nel 1957, nel romanzo Una virtù vacillante, lo scrittore giapponese Yukio Mishima mette a nudo, dinanzi agli occhi della protagonista Setzuko, alcune realtà universalmente valide, incentrate soprattutto sulla differenza tra la concezione dell’amore delle donne e quella degli uomini. Questi ultimi sono evocati come incapaci di abbandonarsi all’affetto con lo stesso impeto delle donne: appaiono dunque deludenti quando si tratta di comprendere la illimitatezza di un’emozione.

Nel libro si narra: «Setzuko era diversa. Per sentirsi veramente viva aveva bisogno di qualcosa simile a una poesia. Una poesia squisitamente erotica. Un concetto il più vicino possibile a una sensazione carnale. Non, come accade agli uomini, un’idea che si trasforma in sensazione carnale, bensì una sensazione carnale che si trasforma in idea, che prende a rifulgere come un gioiello di carne...».

Leggendo i versi di Maurizio Pochesci, pare quasi che il grandissimo Mishima - in senso ovviamente del tutto ipotetico - sia stato abbastanza parziale nell’attribuire in esclusiva alle donne un concetto di poesia esclusivamente erotica, come piacere. Infatti, tra una parola e l’altra, nelle strofe di Maurizio, in un’atmosfera di sogni primaverili si inaugura «una danza d’amore» densa di «carezze ed emozioni», splendenti in un cielo stellato dove tante volte la lirica universale, soprattutto maschile, si è attardata, ispirata ed emozionata.

La trama strutturale ed espressiva delle poesie di Maurizio Pochesci mostra la forte propensione per l’attività figurativa di pittore: in un paesaggio di suggestioni di civiltà e bellezze antiche si articolano i suoi versi, quando, a volte, l’amore diviene racconto poetico.

Nell’esperienza vitale e storica il ricordo viaggia “nel” tempo e “per” il tempo. Soffre però la spinta del ritmo incalzante delle parole-simbolo, con le loro esigenze utopiche di superare la crescente instabilità di valori, l’erroneità delle forze umane, oppure l’ingerenza di un’ostile e cieca casualità della fortuna. I versi sono intervallati da puntini di interpunzione, quasi la voluttà intensa dell’attimo felice, interamente goduto, fosse sospesa, instancabile e per sempre, nella nostra vita.

 
Ricordo di un viaggio
di Maurizio Pochesci

 

Era di Maggio, ricordo

Ti strinsi nuda fra le braccia

Nel silenzio della notte pieno dei tuoi baci.

Il tuo corpo un prato d’amore.

Fu allora che il desiderio mio, come un vulcano,

Esplose nella cuccetta

Mentre il treno veloce correva nella notte.

Fu una notte fatta di mani ed abbracci.

Ormai eri presa in una danza d’amore

Mentre mi riempivi di carezze ed emozioni.

Nel cielo le stelle, nella notte,

Guardavano… mentre arrossivano insieme.

 
 

GIUGNO

ARDUINO CIALLI
 

Nei brani di Arduino Cialli, la parola poetica diventa veicolo di un importante concetto di serietà, la βαρύτης ellenica, che per il poeta è spirito eminente dell’esistenza. Emergono in luce chiara, infatti, profonde radici antropologiche nell’evocare uno spazio concreto alternativo al vivere consueto, seppure in episodi-eventi apparentemente ordinari.

Nel componimento che ora ascolterete, l’autore in persona, ancora fanciullo, è in sella a una bicicletta di notte, in fuga chissà da chi o da che cosa. A causa dello scontro con un’automobile finisce sul prato: ma, a sorpresa, non chiede aiuto, continuando imperterrito a scappare in un continuum che l’età adulta non ha certo interrotto.

Nello scritto Il fanciullino, Giovanni Pascoli scriveva: «Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra... Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo, noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia». Alla fine degli anni Cinquanta, lo storico olandese Johan Huizinga del resto dirà: «Per penetrare nel cuore dei simboli poetici occorre sapersi vestire dell’anima del bambino, come di un camice magico, ed accertare la saggezza del bimbo piuttosto che quella dell’uomo».

Ricordo una volta di aver letto una frase del drammaturgo George Bernard Shaw, nella sua poetica socialmente impegnata: «Quello che vogliamo è vedere il bambino alla ricerca della conoscenza e non la conoscenza alla ricerca del bambino».

Nei versi di Arduino, l’esistere è proiettato in un reale onirico, tale da costringere la natura a rimanere sempre giovane per poterne godere: per decifrare il senso della vita, diveniamo allievi della natura, difensori di una morale non strettamente normativa, al contrario, capace di colpire una realtà collettiva.

In un’altra poesia, siamo proiettati all’interno di una battuta di caccia; transitiamo, però, dal mito ancestrale all’odierna società di massa con la natura profanata e una bestia inseguita. La volpe è l’animale notturno, incarnazione del desiderio e della sensualità, spirito benevolo, fantasia infantile.

Più tardi, al chiaro di luna, nel canneto, l’Io narrante è stordito, la cerca disorientato. Lei è sfuggita come il vento, in una trama di segni e segnali ora mistici, ora immanenti, con un’enfasi non confessionale, piuttosto alternativa, direi quasi rivoluzionaria.
 

Ricordi (La fuga)
di Arduino Cialli

 

Nella notte, le mie fughe in bicicletta

Coi calzoni corti… strappati; sanguinante

Poi il mio cuore chiuso in una stretta

La strada bianca, la paura dei… randagi

L’odore forte delle vigne e sterco di somari

Quando quell’auto mi illuminò, con i suoi fari

E puntò dritta su di me, rimasi freddo

Pensai: ”Addio mia inseparabile bicicletta“

Poi lo schianto e il tuffo… Giù nel prato

Ma non mi arrendo; continuo a fuggire

Zozzo e…. strappato

Chissà da che fuggivo… che cercavo

Già allora in fondo avevo afferrato

Che l’uomo è solo, insegue le chimere

Quelle che mi assillavano, nelle estive sere

Con quei tramonti che indoravan il cielo.

 
Giunti alla metà dell’anno, un breve intermezzo, anche per concedere il giusto riposo ad Angelo Mancini, il quale ha commentato al pianoforte ogni lettura poetica.
Nell’intervallo, il poeta Concezio Salvi e il pittore Maurizio Avi conoscono casualmente una ragazza inglese di passaggio a Lettere Caffè. Salvi ne prende spunto per comporre una poesia.


Al Lettere Caffè di questa sera
di Concezio Salvi

 

Al Lettere Caffè di questa sera

pittura poesie a profusione

un calendario d'arte a presentarlo

dodici poeti dodici pittori,

 

la critica letteraria a dar la palla.

 Maurizio Avi gran pittore

 mi sussurra rapido all'orecchio:

 "La vedi quell'inglese al tavolino

 vorrei ritrarla ma non ho colori,

 provaci tu con le tue parole

 e chiedile se posso farle foto".

 Un viso di nobile sovrana

 d'intellettuale d'Inghilterra

 in Italia per il viaggio d'arte

 ma l'Arte questa sera siamo noi.

 Perché le inglesi hanno questi visi

 come se fossero nobili sovrane?

 E tu Maurizio le hai poi chiesto il nome

 per quest'estate quando sarai a Londra

 in quella galleria che già ti espone?

 Avrai poi finito quel ritratto

 che a questa donna hai già promesso?

 

Il reading riprende con il mese di luglio.

 

LUGLIO

NADIA PASCUCCI
 

La poesia di Nadia Pascucci è essenzialmente lirica d’amore. Ascolteremo dapprima le suggestioni di una visione onirica notturna, quindi un'invocazione alla persona amata di non allontanarsi. Per concludere, una preghiera affinché l'eros possa dimostrare il benefico effetto, sua caratteristica fondamentale. Poi, in un altro componimento, ecco un verso solitario, importante, ricoprire il ruolo di snodo narrativo: «Mi manchi».

Nell'opera della nostra autrice, l'amore di rado è una realtà in atto: piuttosto appare sognato, in una distanza tra la verifica del reale e il puro desiderio. Riga dopo riga, emergono sinceri slanci e fragilità, conflitti dell’anima, e la misteriosa, irraggiungibile bellezza e seduzione della pulsione erotica. Perché, come una volta ha esemplificato Stendhal, nel grande Ottocento francese: «L’amore è un bellissimo fiore, ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull'orlo di un precipizio».

È il miracolo dell’intervallo tra l’uomo e il mondo. Sul versante filosofico, Aristotele, chiedendosi cosa significasse tale espressione, ne concludeva una natura doppia e polisensa. Sosteneva, infatti, che l’amore fosse composto da un’unica anima ospitata in due corpi. L’impulso amoroso coincideva con il gioire, al punto da credere di provare gioia solo a condizione di essere amati. Nello sviluppo creativo, la Pascucci tramuta il tutto nel tentativo di costruire una comunicazione attendibile tra l’insieme della realtà e la poesia, articolando, nel procedere delle strofe, un'accurata alternanza di simbologie, allegorie, metafore, metonimie, mature e penetranti.

La figura retorica, nella produzione della Pascucci, può accadere sia volutamente ingenua, vale a dire naif. Con uno stile armonioso, in un lessico essenziale sfiora qualcosa di eterno, di immutabile: a volte lo enuncia in un solo verso, veicolo di un messaggio niente affatto scontato o banale, come «Il cuore riscopre l’amore».

In un paradosso semantico, ben studiato, ne scaturisce un effetto di scardinamento e trasgressione destinato a divenire bruciante, tanto è diretto, non mediato: è sufficiente il minimo scarto, la minima trasparenza tra il detto e il nascosto, il piano promesso e quello smentito. Si genera così un sentimento disposto ad avere il coraggio di dire le cose quali sono, collocandole utopicamente là dove esiste uno status ad esse riservato, garantito.

Sarebbe, dunque, da rivolgere alla nostra Nadia - poetessa anche in lingua francese - la celebre domanda di Charles Baudelaire: «Dimmi, qualche volta, non ti vola via il cuore?».
 

Resta con me
con Nadia Pascucci

 

Stasera resta con me

Un lieve vento ti porterà le mie parole

e polvere di stelle a regalarci amore in divenire

Momenti di me ti sfiorano,

si posano sulla tastiera del cuore,

tra sospiri di intese e note di canzoni

Sulla vetta dei sogni voliamo,

vulnerabili,

con riflessi del sole al tramonto,

intrecciati tra mille desideri e attesa

Ti amo con il respiro,

mi manchi,

sei nell'orizzonte del mio presente,

vibrante nel grembo dell'anima,

a riempire silenzi

e rinfrescare notti di bruciante febbre,

con vellutati giorni tutti da scoprire,

imprigionato tra favola e poesia,

in infinito amore.

Stasera resta, resta con me,

a guardarci negli occhi,

riconoscerci e viverci con tenerezza,

sdraiati dentro specchi di pelle e ritagli di cielo,

con la intensità di un sentimento

che rende eterno anche un solo istante...

 
 

AGOSTO

CARLA STAFFIERI
 

Lo scorso anno ho avuto l'onore di presentare due volte le opere di Carla, a giugno e a ottobre, in entrambi i casi affermando che la caratteristica centrale della sua poesia consistesse nel coltivare un nesso altamente rilevante tra la poetica e la vita. Una simile associazione è implicita nell’atto stesso del poetare: tuttavia, diviene inquietante in senso innovativo, poiché non segue indicazioni tecnico-semantiche immediate e di lettura semplicemente costruite sul rapporto di causa-effetto.

L'autrice cerca, appunto, di andare al di là delle norme di interpretazione del reale, oltre quelle familiari e sperimentate. Anche quando indugia nel descrivere un paesaggio sereno (ad esempio la calda e pacifica campagna senese), privo di contrasti, conciliante, le metafore e le metonimie riescono a trascendere tutto quanto si è ormai consolidato per ragioni convenzionali. Ascolterete così la descrizione di un'estate rovente, dei cumuli di fieno al sole, di acqua fresca che disseta, mirando a individuare l’oltre al fine di comprendere il prima.

Per la nostra poetessa, in un itinerario di entusiasmo creativo, il rischio è di smarrirsi in un panorama caotico, con la possibilità di rimanere travolti dalle cose in misura arbitraria, o al contrario di ipotizzare un’oggettività inesistente e pericolosa. Nel saggio sull’Umorismo, Luigi Pirandello ha scritto: «Nessun artista crede alla verità oggettiva, cioè reale in sé, del mondo che rappresenta. Ma si potrebbe dire che questa verità oggettiva, non solo per l’artista, non esiste per nessuno».

Pertanto l’autrice, attraverso uno sguardo razionale, collega gli oggetti inanimati a pulsioni concrete, a desideri sensuali, volendo mediare i sensi, segno dopo segno, purificandoli. Tuttavia, lo sappiamo bene, e lei in particolare, l’eros è destinato a rimanere comunque in sospeso tra l’essere e apparire. Insomma, lo spazio poetico è empirico e intimo, costruito per potersi ritrovare in un habitat, direi un trovarsi-nel-mondo. Senza dimenticare che la romantica Madame de Staël già allora sosteneva: «Qualsiasi passione si spegne quando si vede l’oggetto esattamente com’è».

Dunque, nonostante non si possano vedere le cose come sono, ma come crediamo che siano, i versi della Staffieri, nell’armonia ambigua e progressiva dell’Io narrante, accompagnano il lettore in un mondo dove il contesto fisico può essere non più ostile e indifferente. E non è un particolare di poco conto.

 

Gialla, calda estate
di Carla Staffieri

 

gialla, bollente l'estate

mi sfianca prendendosi il respiro

intorno a me surriscaldate menti

ognuna s'adopra nello sfogo

baratto l'arroganza

con il tempo di pensare

e il caldo che mi spossa

con brividi d'intenso piacere

scambio un fascio di nervi

con balle di fieno al sole

cilindri tondeggianti

di gialla estate roventi

e quella tua freddezza d'entusiasmi

stemperi quest'insopportabile afa

sulla pelle attraversare solchi

d'acqua fresca il corpo si disseta

  

SETTEMBRE

ANGELA GRECO
 

La poetica di Angela Greco può suggerire alcune riflessioni sulla formazione del segno poetico, nelle sue funzioni “stare per”, “rappresentare”, “distinguersi da tutto il resto”. La poetessa tenta di scrutarlo mentre cerca, ad esempio, di «(r)aggiungere conchiglia dopo conchiglia», la mèta del percorso tra la parola scelta e il suo referente. È il cammino dei versi a condurre liberamente, eppure guidati, alla magica aggiunta di nozioni capaci di rendere concreto un messaggio ulteriore al contesto letterale-materiale o scientifico.

Questo di più rispetto al codice ordinario è presente in ogni vocabolo e contenuto poetico: tuttavia, nel repertorio della Greco, il meccanismo è coinvolgente ed evocativo. Ne emerge un gioco di sfumature di pertinenza e pratica logico-formali interattive, come nella strofa «quel rosso che non tarderà ci avvicina / viola e arancio di ulivi e mercati».

Il verso mi riconduce alla mente precisi studi di semiotica della fine dell’800, di maestri come Charles Sanders Peirce e Charles Morris. Alludo, in particolare, alla loro battaglia per l’affermarsi di un’unione indelebile di segno e significato: entrambi volevano evitare l’arbitrarietà, tenere lontano il pericolo di considerare l’intelaiatura logico-intuitiva al di fuori del linguaggio prescelto. Rispettando invece, come suggerisce la Greco, la «glottologia di un ricordo / che abbrevia la lontananza».

Scrive Angela Greco: «impazienza di conoscenza», «sospensione d’irrealtà concretizzata senza parole». È come se l’“arte poetica” fosse «una chiave / Che apre mille porte (…) Inventa nuovi mondi (…) Solo per noi / Vivono le cose sotto il sole». I versi sono dell’autore cileno Vicente Huidobro. Anche Angela è come se portasse «secoli socchiusi» sulle spalle, quando magari si scopre «a rubare momenti all’ombra di un albero».

Perché anche gli alberi hanno orecchi, per una voce capace di cantare per mezzo di una fitta “rete” di significante-significati. L’unità di lessico e messaggio, tanto cercata dalla Greco, oltrepassa orizzonti di mitologia e leggende, approda dopo un lungo viaggio a un’isola di immaginazione. Ma non a causa di un esilio, piuttosto proseguendo verso campi di battaglia in difesa del bello, del sublime, contro «mostri» o «fauci e squame opache».

Il mare è còlto in una pietas ancestrale diramata dalle cose dell’uomo: ne unifica, solidale, le condizioni di vita, in un’utopia dove simboli e sensi sacri di salvezza debbono valere per tutti.

 

Pensiero di scirocco
di Angela Greco

 

ripiega la riva del giorno nel guscio di noce-petto

l’ultima voce e il primo mattino in grani e sabbia

da (r)aggiungere conchiglia dopo conchiglia

in lontananza già si vede il mare

a destra del sole del paese vecchio

appena nascosto dal campanile barocco

la banderuola di scirocco indica te

sulla pelle umida di notte insonne

e sale l’odore del sale

trasparente brucia come inverno

che pure dovrà cambiare direzione

dalle pose e dal secco dell’assenza

quel rosso che non tarderà ci avvicina

viola e arancio di ulivi e mercati

e madonne dal nome anagrammato

nella glottologia di un ricordo

che abbrevia la lontananza

 

OTTOBRE

PASQUALE REA MARTINO

 

Ho sempre valutato la possibilità che la poesia gestisse l’eventualità di essere “umile”. Una risposta al quesito, come critico letterario, non sono in grado di darla, in quanto tutti noi studiosi dovremmo avere un concetto comune di “umiltà”. Tuttavia, ciò non accade. Di sicuro, un particolare semantico è ben evidente: non sono “umili”, vale a dire scarse, le metafore e le metonimie dedicate a contesti “umili”, né “alte” le simbologie riservate a fenomeni giudicati “alti” in se stessi.

Pensiamo al pio Enea di Virgilio: era di stirpe semidivina, troiano nella leggenda, proto-romano nella storia. Era un difensore della semplicità e della schiettezza degli elementi legati alla sopravvivenza: essi erano nobili ed egregi, quanto le complesse elaborazioni di scuola ellenica contro cui, strumentalmente, agiva nella vita e nel resoconto poetico.

Pasquale Rea Martino, con le sue poesie autunnali, risponde alla domanda iniziale. La sua natura paesaggistica, costruita di oggetti e vegetali, è invitata a partecipare a uno status concentrato, nella metamorfosi di un sogno. Pasquale intende osservare e trasmettere una realtà naturale, non avvertendo di delinearla “sognandola”: essa è infatti segnale di una felicità anteriore, non esaurita, viva e attiva nell’attesa.

L’Io narrante di Pasquale Rea Martino pone tra sé e la realtà un filtro in grado di allargarsi in elementi concreti, tra foglie secche e arbusti frastagliati, pietre e corsi d’acqua, nebbia, rugiada, ombre solitarie.

Come i poeti di una volta, Pasquale compone un’elegia dedicata alla cosalità perduta. Tuttavia, i crepuscolari lasciavano i fiori ad appassire in un vaso, falsificandoli per farli riconoscere, mentre il nostro Rea Martino in qualche modo cerca di asciugare quelle lacrime oggettive, tentando di varcare il “domani” di un paesaggio abbandonato dall’uomo, così isolato e silenzioso.

La semiotica ha insegnato che, nell’isolamento assoluto, nessun segno possiede un significato. Rea Martino è nel giusto: l’autentico linguaggio delle metafore e metonimie crea atmosfere dove sono le cose a esprimersi, non in maniera inerte, bensì in progress. La natura animata e inanimata descritta in tale poetica è carica di una realtà ben tangibile e dinamica. Al contempo, sa restituire ai destinatari del messaggio un’inquietante immobilità, quasi inverosimile. Sembra, in definitiva, che voglia lasciar intravedere uno spiraglio utile a dipanare l’oscuro disegno dell’esistenza, nel cammino di una dialettica ininterrotta nel tempo e nello spazio.

 

L'Autunno va
di Pasquale Rea Martino

 

Autunno

disperso tra argini

del rio,

tra ovattati suoni,

gli echi dello sciabordio

tra coste frastagliate, pietre,

tra gli arbusti

si perde, or che scende sfuma.

Lungo quella riga s'incanala

anche questa nebbia

impregna opaca,

scende e sbava bruma

tra gli alberi vetusti

l'intriso di rugiada

s'abbatte

sulle foglie morte e poi si placa.

Quieta esala,

in quel levar del sole

sboccia umida vestale

tra le bacche un fungo rosa

e muschio ambrato che intercala

un rifletter di corolle,

su gocciole a brillare come stelle.

 

NOVEMBRE

FLAVIA POLVERINI

 

Come cantante, musicista, pittrice, scrittrice, la poetica globale di Flavia Polverini è nel segno della rivoluzione. Quindi, è densa di sensazioni capovolte: dall’osare al ritrarsi dal farlo, in un preciso e calcolato “gioco”, suggerisce lei stessa, «da soma». Il tutto è scritto, pensato, pronunciato o taciuto, avanzando con coraggio, poiché si parla attraverso un linguaggio dove le entità inesprimibili sono manifeste: «Occhi che danno voce al silenzio, / schiacciano parole come steli / e corolle calpestati in un prato».

Avverto, dunque, il coraggio di andare oltre la metalinguistica: «echi di risa / si cristallizzano / in brina di vetro, innalzando cattedrali di ghiaccio». La simbologia così articolata e trasmessa dall’autrice sembra offrire una Weltanschauung, una visione del mondo, un’anima, una spiritualità, ulteriore all’insieme raffigurato: questi versi, infatti, disseminati di paradigmi e sintagmi, nonostante la fitta trama espressiva, comunicano una perdita di contatto con il contesto.

Com’è già avvenuto in gran parte della poetica del Novecento, brani del genere spalancano la prospettiva di un orizzonte orientato all’antropologia della langue e della parole, riconducibili, ad esempio, al caposcuola Ferdinand de Saussure. Tali tessuti semantici prevedono un codice rigoroso, mai oltre le righe, coincidente, però, con soste e intervalli fonetici precisi, accanto e soprattutto con una voluta riformulazione dei codici abitudinari: il giorno «scivola liquido», la «bianca fumata del prossimo Inverno Pontefice», «il freddo battesimo dei giorni».

È importante, però, non dimenticare quanto la poesia non appartenga a quanti la scrivono, piuttosto a chi la accoglie e la utilizza a proprio modo. Del resto, la scrittrice e psicoanalista tedesca Lou von Salomé, nella prima metà del secolo scorso ha dichiarato: «La poesia è qualcosa che si trova tra il sogno e la sua interpretazione».

 

Rivoluzione densa
di Flavia Polverini

 

Gocce di nebbia

scaglie lattee assopite

in un lenzuolo scarlatto.

Un gioco da soma

stretto intorno all’ego,

rivoluzione densa,

nella brunita essenza.

Il giorno si allunga

e risale i crinali

scivolando liquido,

immerge la buia distesa d’asfalto,

dove la serpe brumosa

stritola l’implume,

dove echi di risa

si cristallizzano

in brina di vetro,

innalzando cattedrali di ghiaccio

per celebrare la bianca fumata

del prossimo Inverno Pontefice.

M’avvinghia nel venefico abbraccio

il sogno,

il freddo battesimo del giorno e dei sospiri

Quel radiante attimo in cui luce

si propaga dai carnei orli,

esalano bisbigli

che nascondono l’iride rugginosa,

e sì dolci

tessono le trame del canto.

Occhi che danno voce al silenzio,

schiacciano parole come steli

e corolle calpestati in un prato,

lì dove ogni pulviscolo del creato

in spirali si condensa,

implacabili

mi riportano a te.

 

DICEMBRE

CONCEZIO SALVI

 

In gioventù, la mia generazione - di Concezio Salvi, e di molti altri qui tra noi - ha sofferto una sorta di condizionamento strutturale e sovrastrutturale, ad opera della società e dei legami familiari: ossia, la tensione combinata della rinuncia all'amore, per così dire puro, a favore della convenienza. Non avremmo dovuto pensare a raggiungere con i mezzi relativi la felicità, bensì ad anteporre la ricerca di una situazione economica gratificante nel sistema.

A una simile ragione di dominio, io e i coetanei abbiamo anche tentato di opporre una ribellione esplicita: le poesie di Concezio testimoniano, appunto, un percorso erotico e amoroso continuo, ininterrotto, a volte interiore e sofferto, in altri casi esplicito, aperto, gioioso. Nella sua poetica, l’amore è quello immenso, dove le cose degne di essere amate, tra segni e segnali, tra un verso e l’altro, si trasformano in “amore” esse stesse.

Ascolteremo, quindi, versi sviluppati in virtù di passione e conflitti, situati come messaggio nel tragitto coerente di paesaggi naturalistici e umani: Foligno, Bevagna, Spello, il duomo, la piazza, le strade, il teatro; poi, le persone, nonni e bambini, zampognari e saltimbanchi, infine le donne: le donzelle del posto, le turiste inglesi, e la sposa, baciata sotto il vischio: compagna e moglie, vestale dei segreti sentimentali e madre, professoressa severa e accigliata, impegnata a commentare i brani da lui appena composti.

Mi sono chiesta: dov’è la leopardiana «donzelletta che vien dalla campagna / in sul calar del sole, / col suo fascio dell'erba; e reca in mano / un mazzolin di rose e viole, / onde, siccome suole, ornare ella si appresta / dimani, al dí di festa, il petto e il crine»? Non è svanita, è coltivata nel sogno amoroso di Concezio Salvi, trasfigurata in ricchezza e sacralità. Tutte cose che a Giacomo, agnostico e romantico, non interessavano. Eppure, anche nel villaggio di Concezio, la famiglia è al completo, da figlio, padre, amico, pur avendo lui superato l’«età fiorita» del «garzoncello scherzoso» della Recanati ottocentesca, e potendo oltrepassare l’ostacolo simbolico e naturalistico della fine del «giorno chiaro, sereno» e «d'allegrezza pieno».

Siamo all’interno della linea di orizzonte dell'eros letterario, occupato nei secoli, prima e dopo, da personalità varie e discontinue, da protagonisti distanti nella cronologia e nelle identità psico-sociali: da Saffo a D'Annunzio, da Catullo a Neruda, dagli stilnovisti a Prévert. Ma, a sorpresa, dimensioni intime, in progress ininterrotto, amplificano la struttura metalinguistica: in tal modo, l’area espressiva del desiderio produce un ambito di diletto intellettuale, pregevole e indelebile. Ha detto Concezio: «Scrivere è lucciola dell'anima / persa nel profondo della tenebra».

 

Il Natale d’un giorno qualunque
di Concezio Salvi

 

Strisciavi lento nel Duomo a Foligno

era Natale d'un giorno qualunque

di San Giovanni lessero l'incipit

vidi il dolore steso al tuo fianco

eretto contorto davanti al presepe

nonni bambini intenti a osservare

nessuno vedeva l'umano miracolo

vivere storpio in un corpo qualunque.

Il carapace a Bevagna di luce

lampi d’amore in collina emanava

lento strisciava sul verde umbro

nel Natale di un anno

di un giorno qualunque.

S'udivano a Spello da Sant'Agostino

allegri e attutiti suoni di pace

in piazza un drago d'uomini e musici

davanti a un locale trovava ristoro

cadeva la neve rada e silente

lenticchie calde e ribollita

mi tuffai in quel popolo d'antico lignaggio

ritrovandomi grumo d'un altro universo.

Procedeva il corteo tra strade incantate

tra vino bruschette abbondanti leccornie

cornamuse zampogne tamburi chitarre

pastori e donzelle alla ricerca dell’Uno

vidi madonne gentili e belle

alte slanciate parlavano inglese

erano parche del Vallo Adriano

venute a prendermi le nuove misure

in cima a quel mondo, ai Cappuccini

il Drago si sciolse nell'ultimo canto

confuso scesi a Vallegloria

tenendo Luciana stretta al mio fianco

e la neve pian piano cambiava le cose.

Eburnea Musa del Teatro Subasio

canti l'amore dei popoli avi

fluenti capelli risacche di onde

due scogli davanti ove rifrangermi

splendida è Julia nella notte invernale

cessata la neve tornate le stelle

passeggio attratto tra presepi stradali

e bacio la sposa sotto l'ombra del vischio.

Colsi mia moglie tra le spellane più

belle

non mi è dato

oh Musa!

di coglierne ancora.

 
Alle letture da parte dei “poeti del calendario”, il reading ha alternato i versi di alcuni “poeti ospiti”, anch’essi introdotti e commentati - seppure sinteticamente - da Cinzia Baldazzi.

 

PAOLA CAPOCELLI

Conosco Paola Capocelli dall’estate scorsa, quando vinse a Roma un premio in un concorso nel quale ero in giuria. È venuta appositamente per il nostro reading dalla sua città, Napoli. Con l’occasione, mi ha portato le poesie di Nel grembo della parola, il suo ultimo libro di cui curerò l’introduzione.  È una poetessa che va a cercare le parole nella terra-madre archetipica e culturale. I suoi versi hanno un ritmo cadenzato e frammentario, direi una tendenza a salti, tipica degli impulsi del cuore. Del resto, tempo fa ha scritto: «Nelle parole batte il mio cuore».
 

Mi trovò la parola
di Paola Capocelli

 

Mi trovò la parola

toccandomi senza dita

mi temprò i pensieri

mosse con puro coraggio

le mie labbra dure

che parlavano di cieli ignorati

di rimescolio di mari.

Abbandonai il mio corpo

al suo respiro

Fui ramo

fui foglia

in un paese crudele e desolato

fiume in un sole di aurora

cielo di luna e di pianeti

fino ai boschi di legni e magie

 

UMBERTO DONATO DI PIETRO

Umberto Donato Di Pietro è un affermato autore di racconti in lingua e di poesie in romanesco. Nella nostra città è in uso l’espressione “girandolone”: ebbene, Umberto lo trovate spesso in giro per l’Italia a collezionare premi nei concorsi letterari. È apprezzato dai poeti, ancor più dalle poetesse. Mi ha onorato chiedendo un breve saggio critico per il suo prossimo libro di versi in vernacolo intitolato Er profumo de Roma.
 

L’ora der cojone
di Umberto Donato Di Pietro

 

L’avete mai provata quella senzazzione

chiamata puro l’ora der cojone

Un giorno me n’annavo pe’ ‘a via

quanno dall’arto de ‘n barcone

me sento chiamà da ‘n’amica mia

Umbè sali che mi padre è ito via

te vojo fa vedè ‘na cosa mia

mo’ te butto ‘a chiave der portone

fa piano quanno sali nell’androne

perché de rimpetto ciabbita mi zia

co’ la recchia appizzata pare ‘na spia

so’ salito du’ piani cor fiatone

poi tutt’anbotto mà pijato er magone

ho sentito come ‘n ruggito de leone

Jò buttato la chiave su ‘o zerbino

so risceso de corza sartanno ‘gni gradino

oggi me renno conto co’ desolazzione

de quello che vordì esse ‘n cojone

purtroppo ‘gni bella lassata è perza

avoja a sbatte ‘a capoccia su ‘a credenza

 

MAPI

La nostra amica Mapi, quando riesce a lasciare l’amata isola di Tenerife e a tornare a Roma, è sempre puntuale agli appuntamenti con la poesia, soprattutto quella d’amore. A novembre, ha voluto che presentassi il suo ultimo libro Le scale del tempo, il cui ricavo è andato a sostegno delle famiglie con bambini colpiti dall’atrofia muscolare spinale SMA. Tempo fa, per la prima volta leggendo alcuni suoi versi, lasciai poche righe di commento: «I suoni magicamente "volano", attraversando l'immaginazione e il pensiero, tra le dita in grado di toccarli in misura concreta: suoni di tale natura, misteriosa e magica, solo in una poesia assai evocativa e modulata possono animarsi».
 

Il lampione
di Mapi

 

La luce fioca del lampione

scopre le tue paure!

Le vedo vagare su corde di un’arpa.

Il suono è cristallino

e si perde

in tremolii di ombre, lontano.

La luce sempre più tenue!

L’arpa continua a suonare

ed io raccolgo i suoni

che mi sfiorano le mani.

Li tengo tra le dita

come eteree farfalle

e non li lascio più volare.

Le tue paure ora sono le mie

e la luce si spegne

nell’alba che nasce.
 

FABRIZIO TRAINITO

Ho conosciuto Fabrizio Trainito grazie ai suoi racconti: in questo periodo, sta assemblando un’antologia sulle storie minori dell’Iliade e dell’Odissea. È artista e disegnatore, seguace della mobile art, che nasce sullo schermo dello smartphone. Ed è autore di poesie, il cui spunto è spesso ricavato da episodi della quotidianità: un incontro per la strada, la passeggiata in un bosco, una corsa - si fa per dire - in metropolitana. Come disse Friedrich Nietzsche, «le idee vengono camminando».
 

Cammino e scrivo
di Fabrizio Trainito

 

Come la penna

che su bianco terreno

In piroette avanza

e il nero solco lascia,

Così io ogni dì

cammino e scrivo.

Il passo sospinge

e la mente inventa

Ogni sosta la mente svampa

Ogni fermata il pensiero langue

Se poi il moto tosto riprendo

Il verso segue spedito e vivo.

Cammino e scrivo

Questo è il mistero

Ricco incantesimo

Dolce sorpresa.

Provare puoi sempre

a cambiare il destino

Ma attento orsù:

La magia è un capriccio

E spesso si inquieta!
 

CLAUDIA MONTEIRO DE CASTRO

Claudia Monteiro De Castro, dalla finestra della sua casa, vedeva le spiagge di Copacabana e di Ipanema. Dall’altro lato, il Cristo Redentore. Da quindici anni in Italia, ora è con noi a Trastevere. È una scrittrice ironica, disincantata, un po’ blasé. L’ho conosciuta commentando il suo ultimo libro La stagione dell’amore, da cui sono tratte le poesie che vi leggerà. Nella prossima silloge in uscita, La stanza gialla, avrò l’onore di curare l’introduzione.
 

L’amore…
di Claudia Monteiro De Castro

 

L’amore,

mi dispiace dirvi,

non esiste.

Lo so, proprio in questo momento,

migliaia di giovani sfoggiano i baci più ardenti,

teste si chinano, affettuose, su morbide spalle.

Dita che s’incrociano,

cuori che si riempiono di speranza,

anziani che si guardano, occhi lucidi.

Ma… l’amore,

mi dispiace dirvi,

non esiste.

Esistono abbozzi,

tentativi,

gesti maldestri.

L’amore è una brutta copia,

e per riscriverla, non basta una vita.

Due esseri sono uno scontro di civiltà.

Due religioni che non coincideranno mai.

Un compromesso storico che non avverrà mai.

Nessuno mi colse così come avrei voluto,

e io, a mia volta, non colsi nessuno.

L’amore,

mi dispiace dirvi,

non esiste.

Siamo pezzi di puzzle diversi

che non s’incastreranno mai.

Gli elfi, le fate, i fantasmi,

ci credete ancora?

L’amore, mi dispiace dirvi,

non esiste!

Ma quanto è dolce questo inganno,

quanto è sublime questo miraggio,

quanto è confortante questo balsamo! 

 

NICOLA FOTI

Nicola Foti è una conoscenza frutto di quelle frequentazioni su Facebook a cui seguono, per fortuna, incontri di persona e amicizie reali. Il suo viaggio di conoscenza è continuo, ininterrotto, alimentato da quello che lui stesso definisce un “insondabile bisogno di scrivere, quasi un rituale magico”. E mi sorprende sempre il suo linguaggio, a metà tra l’immaginario e l’esperienza viva e concreta. Secondo la migliore tradizione.
 

Sarò liquida essenza
di Nicola Foti
 

Sarò liquida essenza

Che nell'intimo incontro

Coprirà

La faccia più golosa

Della Luna

Già tutto è cerimonia

Scarica adesso, o cielo

Zigrinature elettriche

E scaccia incrostazioni

Di recondite remore

Quando alla buccia tenera

Preme di sotto il succo

Non forzerò quei tempi

Di stertorosa attesa

Leggère voleranno

Leggère voleranno

Le difese pudìche

Come i libri di scuola

Gettàti via allo squillo

Di campana

Siamo visceri colmi

Di pulsante tensione

Amore inquieto, folle

Che nell'autunno di vita

Scoppi, e strappi quel grigio

Come fosse finzione

E se poi moriremo

Che si gorgogli vita

Fino all'ultimo istante

Nell'urlo dello sperpero

D'umori opalescenti

Bellezza che si getta

In bocche spalancate

Come angeli di gesso

Dalle candide ali

Fuggiremo di notte

Come falchi hopperiani

  

Al termine dell’evento, Concezio Salvi ha voluto rendere omaggio alla poetessa Annunziata Terracciano, la quale non è potuta essere presente. Alla poesia, da lui recitata, è seguita una breve nota critica di Cinzia Baldazzi.

 

E più non ti vedo
di Annunziata Terracciano

 

Ce ne andiamo abbracciati

 per vicoli stretti

 e piazze assonnate

 nel chiaro mattino invernale

 che strappa con rabbia

 gli ultimi lembi di lucida nebbia

 ancora aggrappata ai fanali.

 

Un profumo dolce amaro

 penetrante, inatteso,

 arriva improvviso

 a imbrigliare i ricordi e le ore

 del nostro viver d'amore.

 

Lo scoprimmo in quei giorni incantati

 che è inverno quando diffonde il suo odore

 il nespolo in fiore

 sui prati di vetro

 nei brevi tramonti.

 

Protese le mani, del ramo più basso

 le dure foglie, coriacee, a spostare,

 c'investe un fragore possente

 di grandine e vento.

 E più non ti vedo

 e più non ti sento.

 

Mi sveglio tremante

 e mi lascio abbracciare

 dal fiume di lacrime amare

 che mi travolge e mi annienta.

 

Nunterra, 20 novembre 2014

  

Cinzia Baldazzi
La poetica di Annunziata Terracciano, ormai è chiaro, concilia le speranze con le illusioni. Come è possibile, chiederete? Non sempre, appunto, scrive la poetessa,  

Un profumo dolce amaro
penetrante, inatteso,
arriva improvviso
a imbrigliare i ricordi e le ore
del nostro viver d'amore. 

A volte, nel buio dei sentimenti e delle sensazioni perdute, l’unica luce per continuare a sperare è illudersi che, anche grazie alla poesia, sia possibile, con “il nespolo in fiore”, protendere le mani del ramo più basso.
E quando siamo investiti da “un fragore possente / di grandine e vento”, ci invade la certezza che l’immagine sperata sia svanita: ecco, allora, sorge, imponente e assoluta, l’illusione di farsi non sovrastare, bensì “abbracciare” da un fiume, che tuttavia è “di lacrime amare”, e travolge e annienta.
Ma quando quel corso malefico avrà col nostro dolore raggiunto il mare, saremo ancora lì, con Annunziata, vivi e vitali, a sperare un nuovo inverno. 

 

A conclusione, la sera stessa, di nuovo Salvi mette in riga e in rima alcune strofe dettate dall’atmosfera appena trascorsa.
 

Avrei fatto di tutto
di Concezio Salvi

 

Avrei fatto di tutto per piacervi,

 persino travestirmi da poeta

 pur di godere della vostra arte

 sarei venuto lieve con ciabatte.

 

Passare una serata con poeti

 con poetesse dalle rime lasse

 dalle chiome fluenti more o rosse

 piacere che sognai di possedere.

 

Poi tutto avvenne, fatto, realizzato,

 da Cinzia con Pochesci nel teatro

 del Lettere Caffè trasteverino

 quel giorno di gennaio,

 ahimè passato.




 

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