Claudio
CAMERINI - “Versi e colori sulle orme del tempo”: un happening
Per definire l’evento “Versi e colori sulle orme del
tempo”, organizzato a Lettere Caffè a Roma lo scorso venerdì, non trovo termine
più efficace di quello di happening. L’espressione nasce assai presto, a fine
anni ’50, per descrivere una forma di intrattenimento (teatro, poesia, arte) in
cui differenti elementi vengono posti in successione, quasi in una sorta di “montaggio”,
con collegamenti a volte alogici ma in una struttura a moduli.
A Lettere Caffè, dodici poeti e altrettanti pittori si
sono dati appuntamento per commentare, con quadri e poesie, i mesi dell’anno: in
una successione serrata, si è tentato - come nella migliore delle tradizioni - il
riavvicinamento tra arte e vita, la possibile coesistenza tra l’effetto
benefico delle “belle arti” e la dimensione effimera e mutevole del quotidiano
ordinario.
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I poeti Carla Staffieri, Arduino Cialli, Pasquale Rea Martino,
Angelo Mancini, Nadia Pascucci, Valerio Di Paolo, Concezio Salvi, Angela Greco,
Donatella Calì, Maurizio Pochesci, Flavia Polverini, Alessandra De Michele,
hanno sistemato i propri versi nel calendario. Gli ultimi quattro, in aggiunta
agli artisti Gianpaolo Berto, Pino Reggiani, Oriana Cammilli, Claudio Morleni,
Maria Sole Sollazzi, Patrizio Colucci, Luigi Barbaresi, Alberto Salvi, hanno
disposto acquerelli, matite, olii e tecniche miste lungo il percorso.
Il recital poetico dell’autore ha avuto a corredo le
note critiche di Cinzia Baldazzi. Sulla superficie delle tele e nelle onde
delle sculture hanno trovato eco le note pop-rock della cantante Flavia Polverini
accompagnata dalla chitarra elettrica di Alessandro Lauri.
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Una piccola ma consistente squadra di “poeti ospiti” ha affiancato i “poeti del calendario”: Umberto Donato Di Pietro, Paola Capocelli, Nicola Foti, Claudia Monteiro De Castro, Fabrizio Trainito, Mapi.
Una piccola ma consistente squadra di “poeti ospiti” ha affiancato i “poeti del calendario”: Umberto Donato Di Pietro, Paola Capocelli, Nicola Foti, Claudia Monteiro De Castro, Fabrizio Trainito, Mapi.
E poi, come ogni happening che meriti tale nome,
vi ha trovato spazio l’imprevisto, inteso non nel senso di sorpresa
estemporanea, non pianificata, bensì sotto forma di “regalo” confezionato dagli
organizzatori (Maurizio Pochesci, Donatella Calì e la stessa Baldazzi) per l’uditorio
del momento, come un paio di doverosi “omaggi” tributati a persone più o meno lontane
(dall’Inghilterra alla Campania…).
Qui di seguito proponiamo le tappe salienti della
serata attraverso le letture poetiche e i commenti, cominciando con un
singolare incipit che ha avuto lo scopo di “rompere il ghiaccio”.
Adriano Camerini
All’inizio degli
anni ’80 io non ero ancora nato, però, da appassionato di cinema, so che
all’epoca le ragazze, ma anche le trentenni e le quarantenni, erano innamorate
di Tom Cruise. Qualche anno prima, impazzivano per John Travolta, quando
ballava in Saturday Night Fever, Grease e Staying Alive.
Bene, di lì a poco,
nel giro di qualche anno, ce li ritroviamo tutti e due paladini del movimento
filosofico e religioso fondato da Ron Hubbard. Tuttora, entrambi sono i vip più
fedeli e impegnati nella diffusione di Scientology: fenomeno assai discusso,
definita “la religione più costosa della terra”, ma comunque una realtà di cui
tener conto.
Per il nostro attore,
Scientology ha avuto importanza anche a livello personale: la prima moglie di
Tom Cruise, Mimi Rogers, lo ha in qualche modo “iniziato” e introdotto. Tre
delle sue più famose compagne, ovvero Nicole Kidman, Penelope Cruz e Katie
Holmes, dopo la rottura con lui hanno abbandonato Scientology.
Perché ve ne
parliamo? Perché domani, sabato, a Londra, l’associazione Gli Amici di Ron
organizza Il Caminetto Poetico, un pomeriggio dedicato a tre poeti italiani con
i loro libri. In uno di questi, la raccolta di Nunzio Buono, è personalmente
coinvolta Cinzia Baldazzi, avendone scritto la post-fazione. Poiché lui leggerà
a Londra alcuni brani del suo scritto, Cinzia ha pensato di ringraziarlo in
anticipo facendo recitare qui una sua poesia. Oggi Tom Cruise ha 55 anni, ma vi
assicuro che, se mia madre avesse avuto la certezza della sua presenza domani
pomeriggio a Londra, sarebbe già partita.
La lettura dei versi di Nunzio Buono è stata affidata
a Pasquale Rea Martino.
RIFLETTO IL FIUME
di Nunzio Buono
La percezione del
mio andare
come dopo le virgole
quando sosto
l'attimo e seguo.
Penso a quel treno
che passato appena è
già distante
e ai tuoi occhi nel
mio paesaggio portato via.
Mi sono fermato
in quegli spazi di
pensiero catartico
le cinque dita ferme
in un arrivederci sono già un addio.
In quelle parole non
dette
restano le mie
poesie
a chi, se ne va da
un giorno di nebbia
per tornare dal
sole.
Svuoto il fiume dal
mio ascolto
avanzo, nel silenzio
dei tuoi occhi
in questo mio andare
lontano.
Dalla sua post-fazione al libro Voli a matita di
Nunzio Buono, Cinzia Baldazzi ha letto alcuni passi.
Cinzia Baldazzi
Andare
oltre, molto oltre, è l’impulso provato nel leggere le poesie di Nunzio Buono. Avverto
una sorta di eco, non di matrice crepuscolare ma energica, ricorrente, quasi
fosse lì a rammentare la necessità di un confronto ininterrotto tra illusioni
già infrante e un’indulgente ironia verso di noi, a lato delle creature amate.
Contro
le apparenze, superando la siepe stabilita dall’opportunismo per censurare ogni
sconfinamento, l’atmosfera del nostro Buono è omogenea a un panorama poetico
visionario.
Dal
contesto non emerge però alcuna qualità astratta, vuota e infeconda. Anzi,
l’autore promuove tappe di un cammino spirituale in un’infinita eredità
dell’intramontabile Canto leopardiano: è una meditata selezione di motivi
concreti e significativi, rintracciati in sviluppate allusioni all’altezza di
rivelare la dimensione intima e storica, tecnico-semantica e razionale
dell’artista.
La
sua antologia poetica spinge ad andare oltre le norme di lettura del reale,
consolidate per ragioni di comodo o abitudini ratificate, poiché permette,
cogliendone l’impianto pragmatico ontologico suggerito dall’ambiente e dalla
collettività, di situarsi al centro di una rete profonda, sterminata e
misteriosa di armonia.
Seguendo l’ordine del libretto pubblicato, e quindi la
successione dei mesi, ogni poeta è stato brevemente presentato dalla Baldazzi e
invitato quindi a leggere i propri versi.
GENNAIO
ALESSANDRA DE MICHELE
Nel
2005, davanti a una folla raccolta nell’auditorio, all’Università di Stanford,
vicino San Francisco, una celebrità mondiale pronunciava con sicurezza queste
parole: «Il nostro tempo è limitato». Un incipit dall’eco purtroppo epifanica
di morte prematura. L’oratore esortava ad ascoltare segnali e presagi del
cuore: «Non dobbiamo sprecare il tempo vivendo la vita di qualcun altro. Non
facciamoci intrappolare dai dogmi, non lasciamo che il rumore delle opinioni
altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte,
dobbiamo avere il coraggio di seguire il cuore e l’intuito. In qualche modo,
essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto, è
secondario».
A
parlare non era un poeta, interlocutore privilegiato dei linguaggi del pathos
delle emozioni, e neanche un pittore immerso nelle figure, bensì un gigante
dell’informatica, imprenditore e inventore statunitense: Steve Jobs, fondatore
della Apple, nel cuore - nel senso anche topografico del vocabolo - della
Silicon Valley californiana.
Ecco,
nell’amore di Alessandra De Michele per l’arte in tutte le sue forme, per la
vita stessa e per l’umanità, non finirà mai di sorprendere la coinvolgente voce
del “cuore”, tra versi e colori sempre in funzione primaria: una fonte
esistenziale e ispirativa da tenere presente nel progredire dei giorni, quando
parla di una «lacrima / che trafigge il cuore»; e anche nella sfera conoscitiva,
al fine di non smarrirsi in contesto freddo e ostile: «il grido disperato di
una bimba bionda / che si perde nell’immenso / Del suo cuore smarrito».
Del
resto, nel nostro Rinascimento, Leonardo Da Vinci già affermava: «Ogni nostra
cognizione, principia dai sentimenti».
Può
accadere, però, di rabbrividire nella solitudine e nello sforzo di superare gli
ostacoli: allora, per la De Michele, «la magica notte» giunge come pausa
propizia. Nel Fedro platonico leggo:
«L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non
sapendo che fare, smania, e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di
giorno, ma corre là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza».
È la ricerca della De Michele: «Afferro ogni possibile filo / Che mi tenga viva
fino al risveglio!».
La
spiritualità di Platone, filosofo delle idee per eccellenza, appare quasi messa
a tacere: l’anima è «invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i
canali ostruiti: prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e
di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere».
Un
simile stato di grazia è così reso da Alessandra: «Il tuo pensiero / Soffia
dolce, a questo cielo, / Che cerca di ritrovare i miei anni». Concludo con Platone:
«Oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico
medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a
cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore».
La
mia infanzia
di Alessandra De Michele
Dietro la porta, rumori lontani,
occhi tristi di una tenera età,
cullavo i sogni nell’erba bagnata.
Il profumo della terra mi era stato
amico.
E come una primula, che si affaccia al
sole,
volevo vivere la trepida attesa degli
anni.
Vacillavo spesso.
Rotolandomi in silenzi privi di respiro;
i gelidi inverni,
erano lunghi per le mie mani screpolate.
Tu non puoi sapere,
dell'oscurità che circonda la mia mente
e nemmeno ascoltare:
il grido disperato di una bimba bionda…
che si perde nell’immenso….
Del suo cuore smarrito.
FEBBRAIO
ANGELO MANCINI
Nella
poetica di Angelo Mancini è come se, nella giostra di Carnevale, rivivesse la
vita intera. Nei versi, troviamo l'intero senso del gioco, e della festa, simboli
complessi e intricati tra loro fin dall'alba dell'umanità. Nel gioco - la παιγμιά
degli Ellenici e il ludus dei latini
- è coinvolto lo spirito dell’essere,
e non del dover essere. Riscopriamo
noi stessi, in una libertà senza imposizioni o comandi autoritari. Il Carnevale
non scorre secondo le modalità della vita ordinaria, la sfera d’azione è
temporanea: si trasgredisce l’ordinario, benché si verifichi una trasgressione
parziale, in quanto risulta strumentalmente, entro certi limiti, concessa dal
sistema.
Come insegna il filosofo Michel Foucault,
in tale ambito la letteratura, nell’uscire dalle righe ordinarie, oltrepassa il
limite: il passaggio, però, non riguarda i contenuti del discorso, ma il
divenire essi stessi, con regole ex-novo, discorso e opera letteraria. Ed ecco, fin dalla prima immagine, la “trovata” di Mancini: nelle strade
dove le mascherine si tirano coriandoli, passa un corteo funebre. L'idea della festività nel suo contenuto è legata
da sempre a quella di morte: dunque, il suo essere alternativa ne trascende il
dato fenomenico e storico per divenire simbolo poetico, cosciente e ulteriore.
Lo studioso Stefano Catucci, nell’introduzione a Foucault, parlava
di una «dimensione di interiorità che ha
permesso all’uomo moderno di tracciare in se stesso il discrimine fra la
coscienza e l’inconscio, fra il lecito e il proibito». Tra il bene e il male, il riso e il pianto, così siamo
condotti a una presa di coscienza austera e inappellabile, dove la forza motrice originaria
dell’insieme, trascendente e divina, terribile e potente, è compagna del
“ridere” di se stessa. È la complicità tragica e angosciosa del futurismo di
Palazzeschi, in Mancini in qualche misura anche neodadaista e pop.
Trapelano, dunque, echi di una ricerca ansiosa di natura filosofica,
non pragmatica e immediata, ma carica di indizi conoscitivi di stampo critico.
Ecco, in Funerale a Carnevale, i
bambini mascherati con il loro riso disinibito e liberatorio, dinanzi al dolore
da smentire. Mentre, non a caso, ne L'assassino
che ride, la conclusione rappresenta con segni grafici la sonorità fonetica
di una bella risata: è l'atteggiamento liberatorio del principio di piacere
oltre la morte. E come in quel vecchio film, alla fine, “tutti risero”.
Funerale
a Carnevale
di Angelo Mancini
Carnevale! Carnevale!
Sta passando un funerale...!
Sta passando un funerale?
Carnevale! Carnevale!
Quanta gente, quanta gente
si ritrova al funerale!
C’è chi piange, c’è chi ride,
a un signore duole un dente
e quell’altro sta pensando
che gli scade una cambiale.
Chi scrutacchia nei negozi,
chi ha bevuto molto vino
e parlotta col vicino.
Quanta gente, quanta gente
si ritrova al funerale!
Carnevale! Carnevale!
Sta passando un funerale!?
Ed intanto ecco arrivare
dei ragazzi mascherati:
c’è Pierrot Zorro Arlecchino...
come gode quel bambino!
Son felici, elettrizzati,
e si lanciano coriandoli
e colorano di gioia
tutto ciò che li circonda...
miei signori, questo è un sogno,
non c’è spazio per la noia!
Carnevale! Carnevale!
Sta passando un funerale...
così scuro, così nero...
che mistero, che mistero
questa vita surreale
dai molteplici colori...
e mi metto ad osservare
sulla scena i tanti attori,
la follia che è nella gente...
mi sto proprio divertendo,
ogni cosa è originale,
che spettacolo stupendo
ci propone questa vita!
Non ci si capisce niente:
tutto è assurdo, incoerente...
E un teatro straordinario
che incomincio ad apprezzare;
or ne son certo, sicuro...
e vi prego, vi scongiuro,
non calatemi il sipario...
non calatemi... il sipario...
MARZO
VALERIO DI PAOLO
Valerio
Di Paolo spesso comunica al lettore una visione tragica e spietata della vita,
con personaggi crudi, senza una via d’uscita alternativa al baratro. È un mondo
popolato da situazioni di abbandono, disperazione, violenza imperdonabile, che
rasentano utopicamente l’universo tragico di Sofocle, secondo il quale «il
dolore più acuto è quello di riconoscere noi stessi come l’unica causa di tutti
i nostri mali».
È
come se davanti a noi, a lui, ai protagonisti, apparisse una specie di risacca
di tutto il sofferto, in grado di invadere e inondare di se stessa l’intera
anima, in una lunghezza d’onda paragonabile alla convinzione del grande
drammaturgo ateniese del V secolo a.C.: «Non siamo responsabili delle nostre
azioni e neppure delle nostre intenzioni, ma della riflessione su ciò che
abbiamo fatto». Ritengo assai inquietante l’attitudine di Valerio a collocarsi
in una direzione in cui non può giungere alcuna risposta sul male, diversa da
una sua tremenda ineffabilità.
Nondimeno,
ben presto ho percepito la possibilità concreta di disegnare il quadro completo:
ho scoperto quanto un simile “pensare” metalinguistico fosse in grado,
nonostante la realtà nemica, di contrastare il “già stato”, per fare in modo che
non si ripeta. Alludo al determinarsi della τύχη, o sorte greca, anzi meglio,
alla μοῖρα, la parte di vita assegnata a ciascuno. I versi di Valerio, quindi, soprattutto
dinanzi a tradimenti e abbandoni, sono all’altezza di compiere un “salto” alternativo
vitale, in confronto ai criteri e alla forza di un ripensamento effettivo dell’essere.
Valerio
Di Paolo, però, compone anche liriche di sconfinato amore. Come accade? Solo se
siamo sempre pronti ad ascoltare l’appello delle parole di poesia, poiché in
esse esiste, di fatto, una speranza di salvezza finale a dispetto delle
avversità: essa è situata nel salto quantitativo e qualitativo dell’esserci, il Daisen dell’Essere e tempo
heideggeriano, dove il “ci” - nella traduzione di Piero Chiodi - non allude solo
a una localizzazione spaziale.
Piuttosto,
il riferimento è a qualcosa di più ambiguo e complesso che, in Valerio, genera
un singolare training poetico capace di costruire lunghi e saldi ponti da
percorrere per superare distanze imponenti o insostenibili: è la strada per far
volare un aquilone e lasciarlo al proprio destino. Con i termini di nuovo presi
in prestito da Martin Heidegger, questi versi sarebbero scritti nella
collettività umana e sociale: ovvero, nelle modalità in cui l’Essere si dona
alla storia, nell’esistenza umana.
Acquerello
di Valerio Di Paolo
Sei arrivata di marzo con una valigia di
cartone
dentro portavi un pezzo di novembre e un
batticuore.
Eri piena di nuvole che a fatica si sono
spostate,
poi è comparso un sole piccolo, tutto
per noi.
Eri una falena posata sulla mia camicia
volevo vedere la tua bocca sporca di
gelato
sei solo riuscita a macchiare le tue ali
con i colori della primavera.
Siamo rimasti per ore seduti su quella
nuvola di zucchero filato
c’era solo la chioma di un tiglio a
separarci dal cielo,
ma ho visto tanti azzurri.
C’era persino un canto di cicale lì,
proprio dietro l’angolo di marzo.
Tu sapevi di arance e di more
la tua grazia se ne stava nelle mie mani
come uno scricciolo
nel rovo delle more di prima, nel
profumo delle arance.
È piovuto appena un po’,
poche gocce per mettere rugiada sui tuoi
fiori.
Siamo rimasti ancora un po’ a tenere il
filo a un aquilone,
poi il filo si è srotolato lentamente in
cielo,
si è sciolto in una lacrima.
Sulla panchina di quel parco è rimasta
seduta, sola,
una rosa in un bicchiere.
APRILE
DONATELLA CALÌ
Le
allegorie tracciate sul sentiero interiore dalla simbologia poetica, e quelle
nella pittura, tra ombre e maschere, fanno parte dello stesso viaggio cognitivo
e propedeutico: la poesia di Donatella Calì è infatti straordinariamente
coerente con la sua pittura. I suoi quadri narrano storie, magari anche più di
una, in diverse parti della tela. Le sue poesie, d’altro canto, costruiscono
immagini, pittoriche e filmiche. La pittura racconta, la poesia raffigura. Il
critico Paolo Balmas ha scritto di lei: «Se ci si ferma a guardare, la Calì ti
costringe a leggere».
Nelle
poesie scelte da Donatella, il tempo scorre, e il lume dell’esistenza, della
parola, delle visioni, si accende e si spegne. L’esperienza dell’arte
figurativa entra con delicatezza nelle strofe, evoca al lettore una scala
cromatica specifica: ecco l’ombrello blu, quasi la citazione di un famoso film
della nouvelle vague, girato nel ’64, Gli
ombrelli di Cherbourg (Les parapluies
de Cherbourg) del regista Jacques Demy: nel lungometraggio, i colori
pastello utilizzati sono infatti molto accesi. Ma non dimentichiamo il verso
sulla «pozzanghera rosso sangue», espressione presente nel racconto di Vladimir
Nabokov Una risata nel buio. Il
protagonista ha il nome emblematico di Albinus: è un critico d’arte, e coltiva
l’idea di avvalersi del mezzo cinematografico per animare quadri famosi, dare
vita e sviluppare gesti e movimenti dei personaggi in campo.
Analogamente,
si muove l’universo semantico poetico di Donatella Calì: di metafora in
metafora, le ombre si allungano nei versi quasi fossero pensieri in progress, da
un input al successivo, transitando con rapidità sorprendente, inquietante.
Ora
vorrei menzionare William Blake, poeta e pittore inglese tra il Settecento e
l’Ottocento. L’artista non amava tenere isolati tra loro il freddo rigido e
l’ombra calda. Donatella è su questa scia, perché li mette a confronto, anzi a
contrasto, misurando la freddezza del bianco e nero con chiazze di rosso,
giallo e arancione. Ciò accade anche nella produzione poetica: i colori
divengono profumi e hanno uno spessore di “piuma”.
Nel
contrasto tra la vita e la morte, l’immaginario e il concreto, la terra e
l’acqua che scorre, non esiste una corrispondenza scontata, come appunto è
osservato da William Blake: il pipistrello è nero e preferisce l’oscurità alla
luce, ma il suo aspetto pauroso non si mimetizza nel buio delle tenebre, anzi,
ne emerge ancor più incombente.
La pioggia d’aprile
di Donatella Calì
Non ti sei accorto?
Oggi la pioggia ero
io,
noi e il tempo
dileguato,
perso nei miei occhi
persi nel fango
La pioggia ero io,
ero l‘acqua che
bagnava le tue mani,
scivolavo dal tuo
ombrello blu
cadendo sul tuo
volto,
piangevo con i tuoi
occhi.
Pioggia di Aprile
come frammenti di specchi
Luccicanti… penetranti,
come piccole lame attraverso
la mia pelle.
Mille visi riflessi,
colorati dalle luci
della sera,
in un mondo senza
sonno.
L’acqua cancella le
impronte
dei miei passi e dei
tuoi.
Hai visto
galleggiare Il mio cuore,
era dentro una
pozzanghera rosso sangue
mentre ti voltavi e
andavi via.
MAGGIO
MAURIZIO POCHESCI
Nel
1957, nel romanzo Una virtù vacillante,
lo scrittore giapponese Yukio Mishima mette a nudo, dinanzi agli occhi della
protagonista Setzuko, alcune realtà universalmente valide, incentrate
soprattutto sulla differenza tra la concezione dell’amore delle donne e quella
degli uomini. Questi ultimi sono evocati come incapaci di abbandonarsi
all’affetto con lo stesso impeto delle donne: appaiono dunque deludenti quando
si tratta di comprendere la illimitatezza di un’emozione.
Nel
libro si narra: «Setzuko era diversa. Per sentirsi veramente viva aveva bisogno
di qualcosa simile a una poesia. Una poesia squisitamente erotica. Un concetto
il più vicino possibile a una sensazione carnale. Non, come accade agli uomini,
un’idea che si trasforma in sensazione carnale, bensì una sensazione carnale
che si trasforma in idea, che prende a rifulgere come un gioiello di carne...».
Leggendo
i versi di Maurizio Pochesci, pare quasi che il grandissimo Mishima - in senso
ovviamente del tutto ipotetico - sia stato abbastanza parziale nell’attribuire in
esclusiva alle donne un concetto di poesia esclusivamente erotica, come
piacere. Infatti, tra una parola e l’altra, nelle strofe di Maurizio, in un’atmosfera
di sogni primaverili si inaugura «una danza d’amore» densa di «carezze ed
emozioni», splendenti in un cielo stellato dove tante volte la lirica
universale, soprattutto maschile, si è attardata, ispirata ed emozionata.
La
trama strutturale ed espressiva delle poesie di Maurizio Pochesci mostra la
forte propensione per l’attività figurativa di pittore: in un paesaggio di
suggestioni di civiltà e bellezze antiche si articolano i suoi versi, quando, a
volte, l’amore diviene racconto poetico.
Nell’esperienza
vitale e storica il ricordo viaggia “nel” tempo e “per” il tempo. Soffre però la
spinta del ritmo incalzante delle parole-simbolo, con le loro esigenze utopiche
di superare la crescente instabilità di valori, l’erroneità delle forze umane,
oppure l’ingerenza di un’ostile e cieca casualità della fortuna. I versi sono
intervallati da puntini di interpunzione, quasi la voluttà intensa dell’attimo
felice, interamente goduto, fosse sospesa, instancabile e per sempre, nella
nostra vita.
Ricordo di un viaggio
di Maurizio Pochesci
Era di Maggio,
ricordo
Ti strinsi nuda fra
le braccia
Nel silenzio della
notte pieno dei tuoi baci.
Il tuo corpo un
prato d’amore.
Fu allora che il
desiderio mio, come un vulcano,
Esplose nella
cuccetta
Mentre il treno
veloce correva nella notte.
Fu una notte fatta
di mani ed abbracci.
Ormai eri presa in
una danza d’amore
Mentre mi riempivi
di carezze ed emozioni.
Nel cielo le stelle,
nella notte,
Guardavano… mentre
arrossivano insieme.
GIUGNO
ARDUINO CIALLI
Nei brani di Arduino Cialli, la
parola poetica diventa veicolo di un importante concetto di serietà, la βαρύτης ellenica, che per il
poeta è spirito eminente dell’esistenza. Emergono in luce chiara, infatti,
profonde radici antropologiche nell’evocare uno spazio concreto alternativo al
vivere consueto, seppure in episodi-eventi apparentemente ordinari.
Nel componimento che ora
ascolterete, l’autore in persona, ancora fanciullo, è in sella a una bicicletta
di notte, in fuga chissà da chi o da che cosa. A causa dello scontro con
un’automobile finisce sul prato: ma, a sorpresa, non chiede aiuto, continuando
imperterrito a scappare in un continuum che l’età adulta non ha certo
interrotto.
Nello scritto Il fanciullino, Giovanni Pascoli scriveva:
«Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la
nostra... Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo, noi accendiamo negli
occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena
meraviglia». Alla fine degli anni Cinquanta, lo storico olandese Johan Huizinga
del resto dirà: «Per penetrare nel cuore dei
simboli poetici occorre sapersi vestire dell’anima del bambino, come di
un camice magico, ed accertare la saggezza del bimbo piuttosto che quella
dell’uomo».
Ricordo
una volta di aver letto una frase del drammaturgo George Bernard Shaw, nella
sua poetica socialmente impegnata: «Quello che vogliamo è vedere il bambino
alla ricerca della conoscenza e non la conoscenza alla ricerca del bambino».
Nei versi
di Arduino, l’esistere è proiettato in un reale onirico, tale da costringere la
natura a rimanere sempre giovane per poterne godere: per decifrare il senso
della vita, diveniamo allievi della
natura, difensori di una morale non strettamente normativa, al contrario,
capace di colpire una realtà collettiva.
In
un’altra poesia, siamo proiettati all’interno di una battuta di caccia; transitiamo,
però, dal mito ancestrale all’odierna società di massa con la natura profanata
e una bestia inseguita. La volpe è l’animale notturno, incarnazione del
desiderio e della sensualità, spirito benevolo, fantasia infantile.
Più
tardi, al chiaro di luna, nel canneto, l’Io narrante è stordito, la cerca disorientato.
Lei è sfuggita come il vento, in una trama di segni e segnali ora mistici, ora
immanenti, con un’enfasi non confessionale, piuttosto alternativa, direi quasi rivoluzionaria.
Ricordi (La fuga)
di Arduino Cialli
Nella notte, le mie
fughe in bicicletta
Coi calzoni corti… strappati;
sanguinante
Poi il mio cuore
chiuso in una stretta
La strada bianca, la
paura dei… randagi
L’odore forte delle
vigne e sterco di somari
Quando quell’auto mi
illuminò, con i suoi fari
E puntò dritta su di
me, rimasi freddo
Pensai: ”Addio mia
inseparabile bicicletta“
Poi lo schianto e il
tuffo… Giù nel prato
Ma non mi arrendo;
continuo a fuggire
Zozzo e…. strappato
Chissà da che
fuggivo… che cercavo
Già allora in fondo
avevo afferrato
Che l’uomo è solo,
insegue le chimere
Quelle che mi
assillavano, nelle estive sere
Con quei tramonti
che indoravan il cielo.
Giunti alla metà dell’anno,
un breve intermezzo, anche per concedere il giusto riposo ad Angelo Mancini, il
quale ha commentato al pianoforte ogni lettura poetica.
Nell’intervallo, il
poeta Concezio Salvi e il pittore Maurizio Avi conoscono casualmente una
ragazza inglese di passaggio a Lettere Caffè. Salvi ne prende spunto per comporre
una poesia.
Al Lettere Caffè di questa sera
di Concezio Salvi
Al Lettere Caffè di
questa sera
pittura poesie a
profusione
un calendario d'arte
a presentarlo
dodici poeti dodici
pittori,
la critica
letteraria a dar la palla.
Maurizio Avi gran pittore
mi sussurra rapido all'orecchio:
"La vedi quell'inglese al tavolino
vorrei ritrarla ma non ho colori,
provaci tu con le tue parole
e chiedile se posso farle foto".
Un viso di nobile sovrana
d'intellettuale d'Inghilterra
in Italia per il viaggio d'arte
ma l'Arte questa sera siamo noi.
Perché le inglesi hanno questi visi
come se fossero nobili sovrane?
E tu Maurizio le hai poi chiesto il nome
per quest'estate quando sarai a Londra
in quella galleria che già ti espone?
Avrai
poi finito quel ritratto
che a questa donna hai già promesso?
Il reading riprende con il mese di luglio.
LUGLIO
NADIA PASCUCCI
La poesia
di Nadia Pascucci è essenzialmente lirica d’amore. Ascolteremo dapprima le
suggestioni di una visione onirica notturna, quindi un'invocazione alla persona
amata di non allontanarsi. Per concludere, una preghiera affinché l'eros possa
dimostrare il benefico effetto, sua caratteristica fondamentale. Poi, in un
altro componimento, ecco un verso solitario, importante, ricoprire il ruolo di
snodo narrativo: «Mi manchi».
Nell'opera
della nostra autrice, l'amore di rado è una realtà in atto: piuttosto appare sognato, in una distanza tra la verifica
del reale e il puro desiderio. Riga dopo riga, emergono sinceri slanci e
fragilità, conflitti dell’anima, e la misteriosa, irraggiungibile bellezza e
seduzione della pulsione erotica. Perché, come una volta ha esemplificato
Stendhal, nel grande Ottocento francese: «L’amore è un bellissimo fiore, ma
bisogna avere il coraggio di coglierlo sull'orlo di un precipizio».
È il
miracolo dell’intervallo tra l’uomo e il mondo. Sul versante filosofico,
Aristotele, chiedendosi cosa significasse tale espressione, ne concludeva una
natura doppia e polisensa. Sosteneva, infatti, che l’amore fosse composto da
un’unica anima ospitata in due corpi. L’impulso amoroso coincideva con il
gioire, al punto da credere di provare gioia solo a condizione di essere amati.
Nello sviluppo creativo, la Pascucci tramuta il tutto nel tentativo di costruire
una comunicazione attendibile tra l’insieme della realtà e la poesia, articolando,
nel procedere delle strofe, un'accurata alternanza di simbologie, allegorie,
metafore, metonimie, mature e penetranti.
La figura
retorica, nella produzione della Pascucci, può accadere sia volutamente ingenua,
vale a dire naif. Con uno stile
armonioso, in un lessico essenziale sfiora qualcosa di eterno, di immutabile: a
volte lo enuncia in un solo verso, veicolo di un messaggio niente affatto
scontato o banale, come «Il cuore riscopre l’amore».
In un
paradosso semantico, ben studiato, ne scaturisce un effetto di scardinamento e
trasgressione destinato a divenire bruciante, tanto è diretto, non mediato: è
sufficiente il minimo scarto, la minima trasparenza tra il detto e il nascosto, il
piano promesso e quello smentito. Si genera così un sentimento disposto ad
avere il coraggio di dire le cose quali sono, collocandole utopicamente là dove
esiste uno status ad esse riservato, garantito.
Sarebbe,
dunque, da rivolgere alla nostra Nadia - poetessa anche in lingua francese - la
celebre domanda di Charles Baudelaire: «Dimmi, qualche volta, non ti vola via
il cuore?».
Resta con me
con Nadia Pascucci
Stasera resta con me
Un lieve vento ti
porterà le mie parole
e polvere di stelle
a regalarci amore in divenire
Momenti di me ti
sfiorano,
si posano sulla
tastiera del cuore,
tra sospiri di
intese e note di canzoni
Sulla vetta dei
sogni voliamo,
vulnerabili,
con riflessi del
sole al tramonto,
intrecciati tra
mille desideri e attesa
Ti amo con il respiro,
mi manchi,
sei nell'orizzonte
del mio presente,
vibrante nel grembo
dell'anima,
a riempire silenzi
e rinfrescare notti
di bruciante febbre,
con vellutati giorni
tutti da scoprire,
imprigionato tra
favola e poesia,
in infinito amore.
Stasera resta, resta
con me,
a guardarci negli
occhi,
riconoscerci e
viverci con tenerezza,
sdraiati dentro
specchi di pelle e ritagli di cielo,
con la intensità di
un sentimento
che rende eterno
anche un solo istante...
AGOSTO
CARLA STAFFIERI
Lo scorso anno ho avuto l'onore di
presentare due volte le opere di Carla, a giugno e a ottobre, in entrambi i
casi affermando che la caratteristica centrale della sua poesia consistesse nel
coltivare un nesso altamente rilevante tra la poetica e la vita. Una simile
associazione è implicita nell’atto stesso del poetare: tuttavia, diviene
inquietante in senso innovativo, poiché non segue indicazioni
tecnico-semantiche immediate e di lettura semplicemente costruite sul rapporto
di causa-effetto.
L'autrice cerca, appunto, di
andare al di là delle norme di
interpretazione del reale, oltre quelle familiari e sperimentate. Anche quando
indugia nel descrivere un paesaggio sereno (ad esempio la calda e pacifica
campagna senese), privo di contrasti, conciliante, le metafore e le metonimie riescono
a trascendere tutto quanto si è ormai consolidato per ragioni convenzionali. Ascolterete così la descrizione di un'estate rovente,
dei cumuli di fieno al sole, di acqua fresca che disseta, mirando a individuare
l’oltre al fine di comprendere il prima.
Per la nostra poetessa, in un itinerario di entusiasmo
creativo, il rischio è di smarrirsi in un
panorama caotico, con la possibilità di rimanere travolti dalle cose in misura
arbitraria, o al contrario di ipotizzare un’oggettività
inesistente e pericolosa. Nel saggio sull’Umorismo, Luigi Pirandello ha
scritto: «Nessun artista crede alla verità oggettiva, cioè reale in sé, del
mondo che rappresenta. Ma si potrebbe dire che questa verità oggettiva, non
solo per l’artista, non esiste per nessuno».
Pertanto l’autrice, attraverso uno
sguardo razionale, collega gli oggetti inanimati a pulsioni concrete, a
desideri sensuali, volendo mediare i sensi, segno dopo segno, purificandoli. Tuttavia,
lo sappiamo bene, e lei in particolare, l’eros è destinato a rimanere comunque
in sospeso tra l’essere e apparire. Insomma, lo spazio poetico è empirico e
intimo, costruito per potersi ritrovare in un habitat, direi un trovarsi-nel-mondo. Senza dimenticare
che la romantica Madame de Staël già allora sosteneva: «Qualsiasi passione si
spegne quando si vede l’oggetto esattamente com’è».
Dunque, nonostante non si possano
vedere le cose come sono, ma come crediamo che siano, i versi della
Staffieri, nell’armonia ambigua e progressiva dell’Io narrante, accompagnano il
lettore in un mondo dove il contesto fisico può essere non più ostile e
indifferente. E non è un particolare di poco conto.
Gialla, calda estate
di Carla Staffieri
gialla, bollente
l'estate
mi sfianca
prendendosi il respiro
intorno a me
surriscaldate menti
ognuna s'adopra
nello sfogo
baratto l'arroganza
con il tempo di
pensare
e il caldo che mi
spossa
con brividi
d'intenso piacere
scambio un fascio di
nervi
con balle di fieno
al sole
cilindri
tondeggianti
di gialla estate
roventi
e quella tua
freddezza d'entusiasmi
stemperi
quest'insopportabile afa
sulla pelle
attraversare solchi
d'acqua fresca il
corpo si disseta
SETTEMBRE
ANGELA GRECO
La
poetica di Angela Greco può suggerire alcune riflessioni sulla formazione del
segno poetico, nelle sue funzioni “stare per”, “rappresentare”, “distinguersi
da tutto il resto”. La poetessa tenta di scrutarlo mentre cerca, ad esempio, di
«(r)aggiungere conchiglia dopo conchiglia», la mèta del percorso tra la parola
scelta e il suo referente. È il cammino dei versi a condurre liberamente,
eppure guidati, alla magica aggiunta
di nozioni capaci di rendere concreto un messaggio ulteriore al contesto letterale-materiale o scientifico.
Questo
di più rispetto al codice ordinario è
presente in ogni vocabolo e contenuto poetico: tuttavia, nel repertorio della
Greco, il meccanismo è coinvolgente ed evocativo. Ne emerge un gioco di
sfumature di pertinenza e pratica logico-formali interattive, come
nella strofa «quel rosso che non tarderà ci avvicina / viola e arancio di ulivi
e mercati».
Il
verso mi riconduce alla mente precisi studi di semiotica della fine dell’800, di
maestri come Charles Sanders Peirce e Charles Morris. Alludo, in particolare,
alla loro battaglia per l’affermarsi di un’unione indelebile di segno e
significato: entrambi volevano evitare l’arbitrarietà, tenere lontano il
pericolo di considerare l’intelaiatura logico-intuitiva al di fuori del linguaggio prescelto. Rispettando invece, come
suggerisce la Greco, la «glottologia di un ricordo / che abbrevia la lontananza».
Scrive
Angela Greco: «impazienza di conoscenza», «sospensione d’irrealtà concretizzata
senza parole». È come se l’“arte poetica” fosse «una chiave / Che apre mille
porte (…) Inventa nuovi mondi (…) Solo per noi / Vivono le cose sotto il sole».
I versi sono dell’autore cileno Vicente Huidobro. Anche Angela è come se
portasse «secoli socchiusi» sulle spalle, quando magari si scopre «a rubare
momenti all’ombra di un albero».
Perché
anche gli alberi hanno orecchi, per una voce capace di cantare per mezzo di una
fitta “rete” di significante-significati. L’unità di lessico e messaggio, tanto
cercata dalla Greco, oltrepassa orizzonti di mitologia e leggende, approda dopo
un lungo viaggio a un’isola di immaginazione. Ma non a causa di un esilio,
piuttosto proseguendo verso campi di battaglia in difesa del bello, del
sublime, contro «mostri» o «fauci e squame opache».
Il
mare è còlto in una pietas ancestrale
diramata dalle cose dell’uomo: ne unifica, solidale, le condizioni di vita, in
un’utopia dove simboli e sensi sacri di salvezza debbono valere per tutti.
Pensiero di scirocco
di Angela Greco
ripiega la riva del
giorno nel guscio di noce-petto
l’ultima voce e il
primo mattino in grani e sabbia
da (r)aggiungere
conchiglia dopo conchiglia
in lontananza già si
vede il mare
a destra del sole del
paese vecchio
appena nascosto dal
campanile barocco
la banderuola di
scirocco indica te
sulla pelle umida di
notte insonne
e sale l’odore del
sale
trasparente brucia
come inverno
che pure dovrà
cambiare direzione
dalle pose e dal
secco dell’assenza
quel rosso che non
tarderà ci avvicina
viola e arancio di
ulivi e mercati
e madonne dal nome
anagrammato
nella glottologia di
un ricordo
che abbrevia la
lontananza
OTTOBRE
PASQUALE REA MARTINO
Ho
sempre valutato la possibilità che la poesia gestisse l’eventualità di essere
“umile”. Una risposta al quesito, come critico letterario, non sono in grado di
darla, in quanto tutti noi studiosi dovremmo avere un concetto comune di
“umiltà”. Tuttavia, ciò non accade. Di sicuro, un particolare semantico è ben evidente:
non sono “umili”, vale a dire scarse, le metafore e le metonimie dedicate a
contesti “umili”, né “alte” le simbologie riservate a fenomeni giudicati “alti”
in se stessi.
Pensiamo
al pio Enea di Virgilio: era di stirpe semidivina, troiano nella leggenda, proto-romano
nella storia. Era un difensore della semplicità e della schiettezza degli
elementi legati alla sopravvivenza: essi erano nobili ed egregi, quanto le
complesse elaborazioni di scuola ellenica contro cui, strumentalmente, agiva
nella vita e nel resoconto poetico.
Pasquale
Rea Martino, con le sue poesie autunnali, risponde alla domanda iniziale. La
sua natura paesaggistica, costruita di oggetti e vegetali, è invitata a
partecipare a uno status concentrato, nella metamorfosi di un sogno. Pasquale intende
osservare e trasmettere una realtà naturale, non avvertendo di delinearla
“sognandola”: essa è infatti segnale di una felicità anteriore, non esaurita,
viva e attiva nell’attesa.
L’Io
narrante di Pasquale Rea Martino pone tra sé e la realtà un filtro in grado di
allargarsi in elementi concreti, tra foglie secche e arbusti frastagliati,
pietre e corsi d’acqua, nebbia, rugiada, ombre solitarie.
Come
i poeti di una volta, Pasquale compone un’elegia dedicata alla cosalità perduta.
Tuttavia, i crepuscolari lasciavano i fiori ad appassire in un vaso,
falsificandoli per farli riconoscere, mentre il nostro Rea Martino in qualche
modo cerca di asciugare quelle lacrime oggettive, tentando di varcare il
“domani” di un paesaggio abbandonato dall’uomo, così isolato e silenzioso.
La
semiotica ha insegnato che, nell’isolamento assoluto, nessun segno possiede un
significato. Rea Martino è nel giusto: l’autentico linguaggio delle metafore e
metonimie crea atmosfere dove sono le cose a esprimersi, non in maniera inerte,
bensì in progress. La natura animata e inanimata descritta in tale poetica è
carica di una realtà ben tangibile e dinamica. Al contempo, sa restituire ai
destinatari del messaggio un’inquietante immobilità, quasi inverosimile. Sembra,
in definitiva, che voglia lasciar intravedere uno spiraglio utile a dipanare
l’oscuro disegno dell’esistenza, nel cammino di una dialettica ininterrotta nel
tempo e nello spazio.
L'Autunno va
di Pasquale Rea
Martino
Autunno
disperso tra argini
del rio,
tra ovattati suoni,
gli echi dello
sciabordio
tra coste
frastagliate, pietre,
tra gli arbusti
si perde, or che
scende sfuma.
Lungo quella riga
s'incanala
anche questa nebbia
impregna opaca,
scende e sbava bruma
tra gli alberi
vetusti
l'intriso di rugiada
s'abbatte
sulle foglie morte e
poi si placa.
Quieta esala,
in quel levar del
sole
sboccia umida
vestale
tra le bacche un
fungo rosa
e muschio ambrato
che intercala
un rifletter di
corolle,
su gocciole a
brillare come stelle.
NOVEMBRE
FLAVIA POLVERINI
Come
cantante, musicista, pittrice, scrittrice, la poetica globale di Flavia
Polverini è nel segno della rivoluzione.
Quindi, è densa di sensazioni capovolte: dall’osare al ritrarsi dal farlo, in
un preciso e calcolato “gioco”, suggerisce lei stessa, «da soma». Il tutto è
scritto, pensato, pronunciato o taciuto, avanzando con coraggio, poiché si
parla attraverso un linguaggio dove le entità inesprimibili sono manifeste: «Occhi
che danno voce al silenzio, / schiacciano parole come steli / e corolle
calpestati in un prato».
Avverto,
dunque, il coraggio di andare oltre la metalinguistica: «echi di risa / si
cristallizzano / in brina di vetro, innalzando cattedrali di ghiaccio». La
simbologia così articolata e trasmessa dall’autrice sembra offrire una Weltanschauung, una visione del mondo,
un’anima, una spiritualità, ulteriore all’insieme raffigurato: questi versi,
infatti, disseminati di paradigmi e sintagmi, nonostante la fitta trama
espressiva, comunicano una perdita di
contatto con il contesto.
Com’è già
avvenuto in gran parte della poetica del Novecento, brani del genere spalancano
la prospettiva di un orizzonte orientato all’antropologia della langue e della parole, riconducibili, ad esempio, al caposcuola Ferdinand de
Saussure. Tali tessuti semantici prevedono un codice rigoroso, mai oltre le
righe, coincidente, però, con soste e intervalli fonetici precisi, accanto e
soprattutto con una voluta riformulazione dei codici abitudinari: il giorno «scivola
liquido», la «bianca fumata del prossimo Inverno Pontefice», «il freddo
battesimo dei giorni».
È importante,
però, non dimenticare quanto la poesia non appartenga a quanti la scrivono, piuttosto
a chi la accoglie e la utilizza a proprio modo. Del resto, la scrittrice e
psicoanalista tedesca Lou von Salomé, nella prima metà del secolo scorso ha
dichiarato: «La poesia è qualcosa che si trova tra il sogno e la sua
interpretazione».
Rivoluzione densa
di Flavia Polverini
Gocce di nebbia
scaglie lattee
assopite
in un lenzuolo
scarlatto.
Un gioco da soma
stretto intorno
all’ego,
rivoluzione densa,
nella brunita
essenza.
Il giorno si allunga
e risale i crinali
scivolando liquido,
immerge la buia
distesa d’asfalto,
dove la serpe
brumosa
stritola l’implume,
dove echi di risa
si cristallizzano
in brina di vetro,
innalzando
cattedrali di ghiaccio
per celebrare la
bianca fumata
del prossimo Inverno
Pontefice.
M’avvinghia nel
venefico abbraccio
il sogno,
il freddo battesimo
del giorno e dei sospiri
Quel radiante attimo
in cui luce
si propaga dai
carnei orli,
esalano bisbigli
che nascondono
l’iride rugginosa,
e sì dolci
tessono le trame del
canto.
Occhi che danno voce
al silenzio,
schiacciano parole
come steli
e corolle calpestati
in un prato,
lì dove ogni
pulviscolo del creato
in spirali si
condensa,
implacabili
mi riportano a te.
DICEMBRE
CONCEZIO SALVI
In
gioventù, la mia generazione - di Concezio Salvi, e di molti altri qui tra noi
- ha sofferto una sorta di condizionamento strutturale e sovrastrutturale, ad
opera della società e dei legami familiari: ossia, la tensione combinata della
rinuncia all'amore, per così dire puro, a favore della convenienza. Non avremmo
dovuto pensare a raggiungere con i mezzi relativi la felicità, bensì ad anteporre
la ricerca di una situazione economica gratificante nel sistema.
A
una simile ragione di dominio, io e i coetanei abbiamo anche tentato di opporre
una ribellione esplicita: le poesie di Concezio testimoniano, appunto, un
percorso erotico e amoroso continuo, ininterrotto, a volte interiore e
sofferto, in altri casi esplicito, aperto, gioioso. Nella sua poetica, l’amore
è quello immenso, dove le cose degne di essere amate, tra segni e segnali, tra
un verso e l’altro, si trasformano in “amore” esse stesse.
Ascolteremo,
quindi, versi sviluppati in virtù di passione e conflitti, situati come
messaggio nel tragitto coerente di paesaggi naturalistici e umani: Foligno,
Bevagna, Spello, il duomo, la piazza, le strade, il teatro; poi, le persone, nonni
e bambini, zampognari e saltimbanchi, infine le donne: le donzelle del posto,
le turiste inglesi, e la sposa, baciata sotto il vischio: compagna e moglie,
vestale dei segreti sentimentali e madre, professoressa severa e accigliata,
impegnata a commentare i brani da lui appena composti.
Mi
sono chiesta: dov’è la leopardiana «donzelletta che vien dalla campagna / in
sul calar del sole, / col suo fascio dell'erba; e reca in mano / un mazzolin di
rose e viole, / onde, siccome suole, ornare ella si appresta / dimani, al dí di
festa, il petto e il crine»? Non è svanita, è coltivata nel sogno amoroso di
Concezio Salvi, trasfigurata in ricchezza e sacralità. Tutte cose che a
Giacomo, agnostico e romantico, non interessavano. Eppure, anche nel villaggio di Concezio, la famiglia è al
completo, da figlio, padre, amico, pur avendo lui superato l’«età fiorita» del
«garzoncello scherzoso» della Recanati ottocentesca, e potendo oltrepassare
l’ostacolo simbolico e naturalistico della fine del «giorno chiaro, sereno» e «d'allegrezza
pieno».
Siamo
all’interno della linea di orizzonte dell'eros letterario, occupato nei secoli,
prima e dopo, da personalità varie e discontinue, da protagonisti distanti
nella cronologia e nelle identità psico-sociali: da Saffo a D'Annunzio, da
Catullo a Neruda, dagli stilnovisti a Prévert. Ma, a sorpresa, dimensioni
intime, in progress ininterrotto, amplificano la struttura metalinguistica: in
tal modo, l’area espressiva del desiderio produce un ambito di diletto
intellettuale, pregevole e indelebile. Ha detto Concezio: «Scrivere è lucciola
dell'anima / persa nel profondo della tenebra».
Il Natale d’un giorno qualunque
di Concezio Salvi
Strisciavi lento nel
Duomo a Foligno
era Natale d'un
giorno qualunque
di San Giovanni
lessero l'incipit
vidi il dolore steso
al tuo fianco
eretto contorto
davanti al presepe
nonni bambini
intenti a osservare
nessuno vedeva
l'umano miracolo
vivere storpio in un
corpo qualunque.
Il carapace a
Bevagna di luce
lampi d’amore in
collina emanava
lento strisciava sul
verde umbro
nel Natale di un
anno
di un giorno
qualunque.
S'udivano a Spello
da Sant'Agostino
allegri e attutiti
suoni di pace
in piazza un drago
d'uomini e musici
davanti a un locale
trovava ristoro
cadeva la neve rada
e silente
lenticchie calde e
ribollita
mi tuffai in quel
popolo d'antico lignaggio
ritrovandomi grumo
d'un altro universo.
Procedeva il corteo
tra strade incantate
tra vino bruschette
abbondanti leccornie
cornamuse zampogne
tamburi chitarre
pastori e donzelle
alla ricerca dell’Uno
vidi madonne gentili
e belle
alte slanciate
parlavano inglese
erano parche del
Vallo Adriano
venute a prendermi
le nuove misure
in cima a quel
mondo, ai Cappuccini
il Drago si sciolse
nell'ultimo canto
confuso scesi a
Vallegloria
tenendo Luciana
stretta al mio fianco
e la neve pian piano
cambiava le cose.
Eburnea Musa del
Teatro Subasio
canti l'amore dei
popoli avi
fluenti capelli
risacche di onde
due scogli davanti
ove rifrangermi
splendida è Julia
nella notte invernale
cessata la neve
tornate le stelle
passeggio attratto
tra presepi stradali
e bacio la sposa
sotto l'ombra del vischio.
Colsi mia moglie tra
le spellane più
belle
non mi è dato
oh Musa!
di coglierne ancora.
Alle letture da parte dei “poeti del calendario”, il
reading ha alternato i versi di alcuni “poeti ospiti”, anch’essi introdotti e
commentati - seppure sinteticamente - da Cinzia Baldazzi.
PAOLA CAPOCELLI
Conosco Paola Capocelli
dall’estate scorsa, quando vinse a Roma un premio in un concorso nel quale ero
in giuria. È venuta appositamente per il nostro reading dalla sua città,
Napoli. Con l’occasione, mi ha portato le poesie di Nel grembo della parola, il suo ultimo libro di cui curerò
l’introduzione. È una poetessa che va a cercare
le parole nella terra-madre archetipica e culturale. I suoi versi hanno un
ritmo cadenzato e frammentario, direi una tendenza a salti, tipica degli
impulsi del cuore. Del resto, tempo fa ha scritto: «Nelle parole batte il mio
cuore».
Mi trovò la parola
di Paola Capocelli
Mi trovò la parola
toccandomi senza
dita
mi temprò i pensieri
mosse con puro
coraggio
le mie labbra dure
che parlavano di
cieli ignorati
di rimescolio di
mari.
Abbandonai il mio
corpo
al suo respiro
Fui ramo
fui foglia
in un paese crudele
e desolato
fiume in un sole di
aurora
cielo di luna e di
pianeti
fino ai boschi di
legni e magie
UMBERTO DONATO DI PIETRO
Umberto Donato Di
Pietro è un affermato autore di racconti in lingua e di poesie in romanesco.
Nella nostra città è in uso l’espressione “girandolone”: ebbene, Umberto lo
trovate spesso in giro per l’Italia a collezionare premi nei concorsi letterari.
È apprezzato dai poeti, ancor più dalle poetesse. Mi ha onorato chiedendo un
breve saggio critico per il suo prossimo libro di versi in vernacolo intitolato
Er profumo de Roma.
L’ora der cojone
di Umberto Donato Di
Pietro
L’avete mai provata
quella senzazzione
chiamata puro l’ora
der cojone
Un giorno me
n’annavo pe’ ‘a via
quanno dall’arto de
‘n barcone
me sento chiamà da
‘n’amica mia
Umbè sali che mi
padre è ito via
te vojo fa vedè ‘na
cosa mia
mo’ te butto ‘a
chiave der portone
fa piano quanno sali
nell’androne
perché de rimpetto
ciabbita mi zia
co’ la recchia
appizzata pare ‘na spia
so’ salito du’ piani
cor fiatone
poi tutt’anbotto mà
pijato er magone
ho sentito come ‘n ruggito
de leone
Jò buttato la chiave
su ‘o zerbino
so risceso de corza
sartanno ‘gni gradino
oggi me renno conto
co’ desolazzione
de quello che vordì
esse ‘n cojone
purtroppo ‘gni bella
lassata è perza
avoja a sbatte ‘a
capoccia su ‘a credenza
MAPI
La nostra amica
Mapi, quando riesce a lasciare l’amata isola di Tenerife e a tornare a Roma, è
sempre puntuale agli appuntamenti con la poesia, soprattutto quella d’amore. A
novembre, ha voluto che presentassi il suo ultimo libro Le scale del tempo, il cui ricavo è andato a sostegno delle
famiglie con bambini colpiti dall’atrofia muscolare spinale SMA. Tempo fa, per
la prima volta leggendo alcuni suoi versi, lasciai poche righe di commento: «I
suoni magicamente "volano", attraversando l'immaginazione e il pensiero,
tra le dita in grado di toccarli in misura concreta: suoni di tale natura,
misteriosa e magica, solo in una poesia assai evocativa e modulata possono
animarsi».
Il lampione
di Mapi
La luce fioca del
lampione
scopre le tue paure!
Le vedo vagare su
corde di un’arpa.
Il suono è
cristallino
e si perde
in tremolii di
ombre, lontano.
La luce sempre più
tenue!
L’arpa continua a
suonare
ed io raccolgo i
suoni
che mi sfiorano le
mani.
Li tengo tra le dita
come eteree farfalle
e non li lascio più
volare.
Le tue paure ora
sono le mie
e la luce si spegne
nell’alba che nasce.
FABRIZIO TRAINITO
Ho conosciuto Fabrizio
Trainito grazie ai suoi racconti: in questo periodo, sta assemblando
un’antologia sulle storie minori dell’Iliade
e dell’Odissea. È artista e
disegnatore, seguace della mobile art,
che nasce sullo schermo dello smartphone. Ed è autore di poesie, il cui spunto
è spesso ricavato da episodi della quotidianità: un incontro per la strada, la
passeggiata in un bosco, una corsa - si fa per dire - in metropolitana. Come
disse Friedrich Nietzsche, «le idee vengono camminando».
Cammino e scrivo
di Fabrizio Trainito
Come la penna
che su bianco
terreno
In piroette avanza
e il nero solco
lascia,
Così io ogni dì
cammino e scrivo.
Il passo sospinge
e la mente inventa
Ogni sosta la mente svampa
Ogni fermata il
pensiero langue
Se poi il moto tosto
riprendo
Il verso segue
spedito e vivo.
Cammino e scrivo
Questo è il mistero
Ricco incantesimo
Dolce sorpresa.
Provare puoi sempre
a cambiare il
destino
Ma attento orsù:
La magia è un
capriccio
E spesso si
inquieta!
CLAUDIA MONTEIRO DE CASTRO
Claudia Monteiro De
Castro, dalla finestra della sua casa, vedeva le spiagge di Copacabana e di
Ipanema. Dall’altro lato, il Cristo Redentore. Da quindici anni in Italia, ora
è con noi a Trastevere. È una scrittrice ironica, disincantata, un po’ blasé. L’ho conosciuta commentando il
suo ultimo libro La stagione dell’amore,
da cui sono tratte le poesie che vi leggerà. Nella prossima silloge in uscita, La stanza gialla, avrò l’onore di curare
l’introduzione.
L’amore…
di Claudia Monteiro
De Castro
L’amore,
mi dispiace dirvi,
non esiste.
Lo so, proprio in
questo momento,
migliaia di giovani
sfoggiano i baci più ardenti,
teste si chinano,
affettuose, su morbide spalle.
Dita che
s’incrociano,
cuori che si
riempiono di speranza,
anziani che si
guardano, occhi lucidi.
Ma… l’amore,
mi dispiace dirvi,
non esiste.
Esistono abbozzi,
tentativi,
gesti maldestri.
L’amore è una brutta
copia,
e per riscriverla,
non basta una vita.
Due esseri sono uno
scontro di civiltà.
Due religioni che
non coincideranno mai.
Un compromesso
storico che non avverrà mai.
Nessuno mi colse
così come avrei voluto,
e io, a mia volta,
non colsi nessuno.
L’amore,
mi dispiace dirvi,
non esiste.
Siamo pezzi di
puzzle diversi
che non
s’incastreranno mai.
Gli elfi, le fate, i
fantasmi,
ci credete ancora?
L’amore, mi dispiace
dirvi,
non esiste!
Ma quanto è dolce
questo inganno,
quanto è sublime
questo miraggio,
quanto è confortante
questo balsamo!
NICOLA FOTI
Nicola Foti è una
conoscenza frutto di quelle frequentazioni su Facebook a cui seguono, per
fortuna, incontri di persona e amicizie reali. Il suo viaggio di conoscenza è
continuo, ininterrotto, alimentato da quello che lui stesso definisce un “insondabile
bisogno di scrivere, quasi un rituale magico”. E mi sorprende sempre il suo
linguaggio, a metà tra l’immaginario e l’esperienza viva e concreta. Secondo la
migliore tradizione.
Sarò liquida essenza
di Nicola Foti
Sarò liquida essenza
Che nell'intimo
incontro
Coprirà
La faccia più golosa
Della Luna
Già tutto è
cerimonia
Scarica adesso, o
cielo
Zigrinature
elettriche
E scaccia
incrostazioni
Di recondite remore
Quando alla buccia
tenera
Preme di sotto il
succo
Non forzerò quei
tempi
Di stertorosa attesa
Leggère voleranno
Leggère voleranno
Le difese pudìche
Come i libri di
scuola
Gettàti via allo
squillo
Di campana
Siamo visceri colmi
Di pulsante tensione
Amore inquieto,
folle
Che nell'autunno di
vita
Scoppi, e strappi
quel grigio
Come fosse finzione
E se poi moriremo
Che si gorgogli vita
Fino all'ultimo
istante
Nell'urlo dello
sperpero
D'umori opalescenti
Bellezza che si
getta
In bocche spalancate
Come angeli di gesso
Dalle candide ali
Fuggiremo di notte
Come falchi
hopperiani
Al termine dell’evento, Concezio Salvi ha voluto
rendere omaggio alla poetessa Annunziata Terracciano, la quale non è potuta
essere presente. Alla poesia, da lui recitata, è seguita una breve nota critica
di Cinzia Baldazzi.
E più non ti vedo
di Annunziata
Terracciano
Ce ne andiamo
abbracciati
per vicoli stretti
e piazze assonnate
nel chiaro mattino invernale
che strappa con rabbia
gli ultimi lembi di lucida nebbia
ancora aggrappata ai fanali.
Un profumo dolce
amaro
penetrante, inatteso,
arriva improvviso
a imbrigliare i ricordi e le ore
del nostro viver d'amore.
Lo scoprimmo in quei
giorni incantati
che è inverno quando diffonde il suo odore
il nespolo in fiore
sui prati di vetro
nei brevi tramonti.
Protese le mani, del
ramo più basso
le dure foglie, coriacee, a spostare,
c'investe un fragore possente
di grandine e vento.
E più non ti vedo
e più non ti sento.
Mi sveglio tremante
e mi lascio abbracciare
dal fiume di lacrime amare
che mi travolge e mi annienta.
Nunterra, 20
novembre 2014
Cinzia Baldazzi
La
poetica di Annunziata Terracciano, ormai è chiaro, concilia le speranze con le
illusioni. Come è possibile, chiederete? Non sempre, appunto, scrive la
poetessa,
Un profumo dolce
amaro
penetrante,
inatteso,
arriva improvviso
a imbrigliare i
ricordi e le ore
del nostro viver
d'amore.
A
volte, nel buio dei sentimenti e delle sensazioni perdute, l’unica luce per
continuare a sperare è illudersi che, anche grazie alla poesia, sia possibile,
con “il nespolo in fiore”, protendere le mani del ramo più basso.
E
quando siamo investiti da “un fragore possente / di grandine e vento”, ci
invade la certezza che l’immagine sperata sia svanita: ecco, allora, sorge,
imponente e assoluta, l’illusione di farsi non sovrastare, bensì “abbracciare”
da un fiume, che tuttavia è “di lacrime amare”, e travolge e annienta.
Ma
quando quel corso malefico avrà col nostro dolore raggiunto il mare, saremo
ancora lì, con Annunziata, vivi e vitali, a sperare un nuovo inverno.
A conclusione, la sera stessa, di nuovo Salvi mette in
riga e in rima alcune strofe dettate dall’atmosfera appena trascorsa.
Avrei fatto di tutto
di Concezio Salvi
Avrei fatto di tutto
per piacervi,
persino travestirmi da poeta
pur di godere della vostra arte
sarei venuto lieve con ciabatte.
Passare una serata
con poeti
con poetesse dalle rime lasse
dalle chiome fluenti more o rosse
piacere che sognai di possedere.
Poi tutto avvenne,
fatto, realizzato,
da Cinzia con Pochesci nel teatro
del Lettere Caffè trasteverino
quel giorno di gennaio,
ahimè passato.
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