Enrico GRAGLIA - “Una singola macchia di sangue”
(racconto breve)
Rientrando a casa,
Roberto notò una macchia, davanti alla porta dell’appartamento, al secondo
piano del palazzo in cui abitava. Una singola macchia di sangue. Si chinò ad
esaminarla, incuriosito: una goccia rosso cupo, fresca. Qualcuno si era fatto
male, forse il dottor Carlucci, proprietario dell’appartamento.
Roberto si rialzò,
con l’idea di salire al piano di sopra e proseguire la sua esistenza, facendosi
una doccia e preparandosi la cena. Più tardi, ci sarebbe stato tempo per un
buon libro, da sfogliare con il gatto sulle ginocchia, che faceva le fusa.
Assaporò quell’idea, osservando la macchia, e la scacciò. Spinse, invece, la
porta dell’appartamento di fronte a sé. Era socchiusa e si aprì su un ingresso
di piccole dimensioni, che dava su un salotto immerso nella penombra.
Roberto sommò la
goccia di sangue e la porta aperta e ottenne un risultato spiacevole. Ripensò a
doccia, cena e libro, ma suo malgrado avanzò nell’appartamento in cui viveva il
dottor Carlucci: un uomo distinto, sempre ben vestito, molto educato, con una
moglie la cui bellezza andava di pari passo con l’eleganza.
In una delle stanze
affacciate sul corridoio, che si apriva sulla destra del salotto, c’era una
luce accesa e Roberto andò verso quella luce, come verso un destino
inevitabile. Sfiorò la spalliera di un divano, apprezzò i quadri affissi alla
pareti e la libreria ad angolo, il tappeto persiano e la mobilia raffinata. Si
muoveva come in un sogno.
«Dottor Carlucci», disse,
troppo piano perché qualcuno potesse udirlo. «Sono l’inquilino del piano di
sopra. Ho trovato la porta aperta e ho pensato…».
Il corridoio portava
al bagno e alla camera da letto dei coniugi Carlucci. Era da quest’ultima che
veniva la luce. Roberto si avvicinò lentamente e si affacciò alla porta della
stanza. I coniugi Carlucci erano sdraiati sul letto, ma non stavano dormendo:
erano morti. Il loro sangue aveva intriso il copriletto bianco, fuoriuscendo da
numerose ferite al petto e all’addome. Si tenevano la mano, i due, gli occhi
spalancati rivolti al soffitto, le bocche aperte, la carnagione pallida come
cera. Il sangue era colato dal letto al pavimento. Scorrendo in mille rivoli,
si raccoglieva in una scritta, incisa sul parquet, che recitava “OCCHIO PER
OCCHIO, DENTE PER DENTE” in rosso scuro.
Roberto osservò la
scena per qualche secondo, che la sua mente percepì lunghissimo, quasi eterno.
Ogni particolare si impresse nella sua memoria. Pensò che sarebbe caduto in
ginocchio e si sarebbe messo a vomitare, o che sarebbe fuggito urlando
dall’appartamento. Poi, visto che il suo corpo non reagiva in quel modo, si
vide chiamare i carabinieri, comporre il numero di telefono, denunciare
l’accaduto. Non poteva certo andarsene, tornare al programma della sua serata,
senza prendersi responsabilità; in fondo, aveva iniziato a farlo nel momento
stesso in cui aveva posato gli occhi su quella singola macchia di sangue. Pensò
al calore della doccia, al cibo della cena che gli riempiva lo stomaco vuoto,
alla trama avvincente in cui si sarebbe calato, leggendo il suo libro.
Un rumore lo fece
tornare alla realtà: dei passi e un respiro trattenuto, alle sue spalle. Si
voltò e si trovò davanti una figura, nel corridoio. Un uomo alto e magro lo
osservava. Era molto pallido, aveva il cranio rasato e sembrava vecchio e
stanco. Eppure, a guardarlo bene, non superava la quarantina.
Stringeva un
coltello nella mano sinistra, segno che era mancino. E che aveva ucciso i coniugi
Carlucci, naturalmente.
«Buonasera», disse,
in tono pacato, per niente minaccioso.
«Buonasera a lei», rispose
Roberto.
Non provava timore,
davanti all’assassino. Gli riservava la cordialità che di solito usava coi
clienti, al lavoro. Lo osservò, cercando di capire cosa lo avesse spinto a quel
gesto. Trovò curioso che non avesse sangue né sulla lama del coltello, né sui
vestiti. Al di fuori della camera da letto, c’era soltanto quella singola
macchia sul pianerottolo.
«Ha trovato la porta
aperta, vero?», gli chiese l’assassino. «Me ne sono dimenticato».
«Sì, ma non era mia
intenzione entrare».
«Capisco. Non ha
toccato nulla, giusto? Meglio così. Devo chiederle, per cortesia, di lasciare
questa stanza, andare a casa e dimenticare quello che ha visto. Si faccia una
doccia, mangi e legga un buon libro».
«È stato lei a…?».
«Sì, li ho uccisi
io. Il dottor Carlucci ha ammazzato mia moglie, che dio la benedica. Era malata
e lui non ha saputo curarla. Lei è morta. E io ho ucciso il dottor Carlucci,
così tutto è tornato in equilibrio. Sua moglie, però, non ha capito quello che
stavo facendo. Si è messa in mezzo, ha iniziato a gridare. Ho dovuto uccidere
anche lei. E ora devo ristabilire l’equilibrio un’altra volta, per cui la prego
di andarsene. Sarebbe così gentile?».
Roberto diede
un’occhiata ai corpi stesi sul letto, al sangue e alla scritta. Poi guardò
l’assassino negli occhi. Aveva capito quello che stava per fare e vederli
sgombri di ogni timore, limpidi e determinati, lo fece sorridere: sarebbe morto
in pace, avrebbe ristabilito l’equilibrio.
«Mi scusi», disse,
passando accanto all’assassino. «Buonasera».
«Può chiudere la
porta, andando via?».
«Ma certo».
Roberto uscì
dall’appartamento del secondo piano, senza voltarsi indietro. Chiuse piano la
porta, per non disturbare, e abbassò gli occhi. Il pavimento del pianerottolo
era pulito, non c’erano macchie. D’altra parte, lui non era mai stato in quell’appartamento.
Salì le scale e
rientrò a casa. Si tolse il cappotto, accarezzò il gatto, che gli veniva
incontro stiracchiandosi, e si preparò a farsi la doccia, cenare e leggere il
suo libro.
La narrativa di Enrico Graglia mostra un interesse particolare per il genere thriller, nella tradizione, insieme ad altri, del maestro dichiarato e indiscusso Stephen King: «Io vedo realmente, davanti a me, gli orrori che racconto, come fossi ipnotizzato». In occasioni ripetute lo scrittore statunitense ha precisato: «Tant'è che se non scrivo, mi addormento a fatica e faccio brutti sogni: quelle allucinazioni devono comunque affiorare, nel sonno o nella veglia».
La narrativa di Enrico Graglia mostra un interesse particolare per il genere thriller, nella tradizione, insieme ad altri, del maestro dichiarato e indiscusso Stephen King: «Io vedo realmente, davanti a me, gli orrori che racconto, come fossi ipnotizzato». In occasioni ripetute lo scrittore statunitense ha precisato: «Tant'è che se non scrivo, mi addormento a fatica e faccio brutti sogni: quelle allucinazioni devono comunque affiorare, nel sonno o nella veglia».
L’iter comunicativo di
Una singola macchia di sangue, dove il
rappresentato è accresciuto da una sviluppata fisicità del significante, cioè
del lessico selezionato, è caratterizzato da una trama-intreccio intessuta con appropriata
cura stilistica: procede avara di intervalli, non volendo indurre il lettore a subire
un percepire automatico tra i segni-segnali elaborati e quanto ad essi pertinente.
Si snoda dunque, nel discorso, un’energica
e rapida indagine in chiave di strumento di controllo (in senso polivalente) circa
le reazioni dell’animo umano di fronte al brivido e alla violenza di un
sanguinoso crimine sconcertante e inatteso.
L’assassino, di
conseguenza, appare nella penombra, calvo come un pagliaccio, non estraneo ai
tanti clown materializzati in fondo al corridoio, secondo un’iconografia
largamente ripresa dal cinema e da prodotti televisivi di notevole fama, inaugurata
da It, la famosa horror novel di King, e ricreata a distanza di trent’anni - nelle
vesti di serial killer - in Mr. Mercedes.
Ma il nostro Graglia,
dopo aver reso omaggio al romanziere, orienta la struttura del plot all’interno
di un originale arco semiotico connesso a un’intelaiatura ostensiva di impianto
filmico, quasi ricostruendo l’episodio delineato sull’aura e la corrispondenza
significativa del montaggio di una celebre sequenza: la cruenta scoperta del
detective Will Graham alla luce della torcia, nell’appartamento buio
dell’ambiente circostante, nel film Manhunter,
diretto e sceneggiato da Michael Mann, e con la scelta di evocare, benché
liberissima e non manipolata, la figura alta e spettrale ispirata
all’agghiacciante protagonista Dollarhyde; non trascurando inoltre, nella mia
proposta di lettura - in un ulteriore volo di associazioni utopiche - il
profilo, tra le righe, di John il Rosso e del suo modus operandi, nel ruolo di imprendibile omicida della serie tv Mentalist di Bruno Heller.
Tuttavia, uno dei
maggiori pregi della short story di
Graglia consiste nel maturare il processo efficace di un fitto terreno
semantico veicolo espressivo di un eccelso agreement
condiviso tra il carnefice e il visitatore casuale: ne emerge un dialogo
educato, formale, consono della norma del codice convenuto, tra spiritualità e
stati del mondo, destinato però a scivolare nell’abisso dell’indistinto.
Chissà se il
condomino testimone della vicenda riuscirà a difendere il programma auspicato a
conclusione della giornata, nei termini in cui lo aveva immaginato giungendo,
ignaro, sul pianerottolo: una doccia, la cena, quindi un buon libro «da
sfogliare con il gatto sulle ginocchia». Il gusto di pagine di ottima qualità letteraria?
Nonostante sia reduce dal tremendo accaduto? In un giudizio reale, potrebbe sembrare
un’eventualità contraddittoria e non verosimile; eppure Enrico Graglia è nel
giusto, pensando al consiglio dell’autore di The Shining, e a dispetto del suo indimenticabile e scioccante writer’s block: «Quando tutto il resto
fallisce, arrenditi e vai in biblioteca».
A ben vedere, però, nella
dinamica del narrato trapela un messaggio eluso, o per volontà ignorato, da Stephen
King: dinanzi alle tragedie altrui, l’impulso predominante coincide con
l’urgenza di tornare, non esitando, a casa; perché, almeno per ora, non è toccato
a noi, senza colpa, soccombere. All’epoca nella quale uno dei capostipiti dell’horror contemporaneo (nato a Portland,
in quello stato del Maine, teatro della serie Murder, she wrote di Fischer, Levinson e Link, ossia della “signora
in giallo”, la mitica Jessica Fletcher) ha iniziato a scrivere, il terrorismo mondiale
su ampio raggio era di là da venire: oggi, purtroppo, è in agguato ovunque. Pertanto
non sono incline a rimproverare qualcuno - o, peggio, discriminare - se, all’improvviso,
davanti a una o più vittime innocenti, in analogia a quanto succede
all’inquilino Roberto, invece di essere travolto dal dolore degli altri
lasciandosi trascinare dalla loro tragica e sciagurata fine, come immediata
reazione coltiva invece l’idea del piacere scaturito dalla sopravvivenza
personale. E magari, a questo punto, con anima e corpo già alloggiati nella
dimora-rifugio, riparo confortevole dalla morte sin dalla civiltà archetipica, assapora
in anticipo il ristoro di poter approfittare della compagnia di un “buon libro”. (c.b.)
Un feroce delitto con gentilezza...incredibile ed affascinante.
RispondiEliminaAll'interno del leitmotiv della horror novel di Stephen King, hai ragione, è proprio in questo contrasto tra la ferocia e la gentilezza che viaggia indipendente la scelta semantica efficace di Graglia.
EliminaIl racconto scorre liscio ma dal momento che apre la porta tutto diviene scontato se non fosse per la presenza di un “educato “assassino. Difficile poi far finta di nulla e tornare a casa .
RispondiEliminaDifficile, hai ragione, ma a volte l'istinto della sopravvivenza riesce nell'impossibile. Concordo con te sull'educato assassino: molto complessa è la scelta di far finta di non averlo visto. E' infatti l'assurdo che si aggiunge alla tragedia.
EliminaDa un punto di vista generale ed umano, questo racconto breve mi sembra l’emblema dei nostri, tempi in cui possiamo visionare, dal vivo o tramite mass- media ,i fatti più ignobili o più tragici, commentandoli con due lacrime di pietà e un momento di sconforto ( a volte nemmeno questi), per poi tornare alla nostra rassicurante quotidianità: il protagonista, pur non resistendo alla curiosità e in un certo senso all’imperativo “etico” di sapere e di conoscere, anche quando si trova davanti alla macabra scena dei due corpi esanimi, feriti e insanguinati, continua a pensare ,in forma più o meno latente, alla confortante sequenza di azioni in cui si potrà cullare, una volta rientrato tra le pareti domestiche. Ad una analisi più specificatamente “letteraria” mi sembra di individuare, nel suo svolgersi graduale, due fasi pressoché distinte, anche se accumunate dal pathos fatto di attesa e di tensione, proprio di quasi tutto il racconto. Nella prima parte, seguendo l’iter narrativo tipico del trillher, l’autore si avvale di un approccio stilistico e di una scelta lessicale che guidano il lettore, a piccoli passi pieni di tensione, fino al dramma e alla rivelazione finale. La seconda parte (l’incontro con l’assassino), è ricca di elementi surreali che si rivelano nel tratteggio sicuro delle caratteristiche dei due protagonisti, nel loro dialogo da persone perbene, nei loro saluti cortesi: mi sembra, in altri termini, che il racconto potrebbe prestarsi bene ad una traduzione teatrale, teatro, per l’appunto, dell’assurdo.
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