giovedì 22 marzo 2018

Luisa SANFILIPPO - “Saturazione” (racconto breve)

 
                                                          Opera di Vincenzo Sanfilippo
 
Un formicolio persistente da giorni si è insinuato nella mente di Sandra.
Segnale da non sottovalutare. Sindrome di una necessità urgente che lei deve necessariamente prendere in considerazione. Tra i tanti quesiti che l’assillano cerca di individuarne qualcuno.
Prova a soffermarsi. Riflettere. Pensa a una frase di Picasso:
“Gettare un oggetto apparentemente insignificante è come strappare un pezzetto di carne dal mio corpo”.
«Certo, lui era un grande artista, un accumulatore molto esigente, e tutto gli poteva servire per ideare, assemblare una nuova opera. I suoi studi erano pieni non solo dei suoi dipinti, ma di qualunque altra cosa d’ogni genere e forma. Ma io, mi domando, pur avendo interessi artistici e culturali, cosa me ne faccio di tutto l’ingombro che mi circonda?».
Sandra avverte la pesantezza di uno spazio pieno, dovuta sicuramente a uno stato di graduale saturazione, dove oggetti, libri, giornali, mobili, vestiario e altro sono stipati gli uni agli altri, senza nessuna connessione logica.
E pensa subito al vestiario. Si accorge che nella sua casa c’è stato negli ultimi anni un proliferare esagerato di molti capi del proprio abbigliamento. Hanno invaso armadi di piccole dimensioni che non riescono più a contenere nulla.
«Cosa faccio?», si chiede. «Non c’è più spazio. O cambio gli armadi, o butto via tutto. O quasi tutto…».
Da quel “quasi”, si può intuire che molto vestiario Sandra lo tiene per abitudine o per affezione. Da anni. La situazione rimane invariata. Stagnante.
«Forse considero tutto indispensabile?».
Le viene subito in mente “La Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto: «In quell’opera-installazione del 1967/’68», considera, «l’autore crea una strana contrapposizione: vecchi abiti dismessi multicolorati da dove emerge la statua della Venere di Milo. Dunque… gli “stracci” logorati dal tempo che passa... salvati, elevati a dignità artistica dall’immagine simbolica del bello-ideale… la Venere. Se Pistoletto ha creato questo efficace abbinamento, io cosa potrei farne dei vecchi abiti? Non sono all’altezza di riutilizzarli artisticamente. Ma non sono nemmeno in grado di liberarmene. Un dilemma molto fastidioso».
E i giornali? Di solito Sandra li compra tutti i giorni. Ma non sempre ha tempo o voglia di leggerli. Allora li ripone uno per uno, pensando di selezionare in seguito gli articoli che le interessano. Ma ciò non avviene - per i motivi citati - e gli articoli non vengono selezionati. E intanto compra altri giornali che si vanno ad aggiungere a quelli che ha messo da parte e che non ha avuto - anche per indolenza - il coraggio di buttare.
E si accumulano, si accumulano…
Poi Sandra pensa agli oggetti.
«Anche gli oggetti, per esempio. Li tengo per abitudine. Come si fa a liberarsi degli oggetti... Essi raccontano la nostra vita, accompagnano le nostre storie…».
Forse è vero. Degli oggetti non sempre sappiamo farne a meno o separarcene. 
E si accumulano, accumulano…
Dall’associazione oggetto-accumulo, le viene subito in mente Andy Warhol. Considera che l’artista è stato un grande accumulatore. Lei si è documentata e ha scoperto che nel ’74 ha realizzato “Le capsule del tempo”, grandi scatole in cui metteva dentro tracce del suo quotidiano.
«C’era di tutto», osserva Sandra, «biglietti di concerto, articoli di giornali, cioccolatini, oggetti vari, scarpe, disegni, vestiario… In quelle scatole egli immagazzina 500 oggetti, come frammenti del tempo incapsulato, che anche in questo caso Warhol trasforma in installazione d’arte. O meglio, il suo disturbo patologico dà origine all’opera d’arte. Certo, anche i miei oggetti, utili o futili che siano, in mano ad artisti veri potrebbero diventare dei capolavori, far parte di una pregiata collezione d’arte. E invece sono costretti a una convivenza obbligata, senza via d’uscita, senza nessuna gratificazione, raggruppati in ogni angolo della casa, alcuni a fare bella mostra di sé, acquistati magari durante i viaggi ed eletti a simboli di terre lontane. O semplicemente tenuti come ricordo di antichi o recenti compleanni, anniversari, eventi importanti, o altro…».
Poi Sandra si sofferma a pensare a quell’intollerabile numero di scarpe che occupano indebitamente spazi inimmaginabili.
Dove? Dietro il divano del soggiorno. Per il solo fatto di essere accostato su una parete con una lieve sporgenza dovuta a una lunga mensola, dà alle scarpe il diritto di inserirsi e di soggiornare lunghi periodi tra una stagione e l’altra.
Non si accontentano di starsene indisturbate e invisibili dietro il divano - continua a pensare con una nota di intolleranza - ma osano anche occupare i piani dei mobili della camera da letto, riposti nelle loro scatole, moltiplicate per almeno otto. Un accumulo esagerato di scatole! 
E altre scatole stanno sotto il letto, sotto altri mobili; e ci convivono pure quelle sparse che mette tutti i giorni. Sandra se le ritrova ovunque, e in maggior quantità sotto il mobile del bagno o dietro la porta.
Ecco allora quel formicolio persistente che le frulla in testa mentre se ne sta distesa a letto con la pancia in su e lo sguardo inebetito rivolto al soffitto.
In effetti sono mesi che prova ad alleggerirsi dell’ormai inutile o superfluo. Il tempo scorre e la situazione rimane invariata.
È probabile che Sandra soffra di lentezza del processo decisionale, intrappolata tra il bisogno di trattenere, di riempirsi di cose e la necessità di disfarsi delle cose.
Non riesce ancora superare lo scoglio dell’indecisione.
A questo punto l’atteggiamento di Sandra ha un lieve cambiamento.
Dalla posizione distesa passa a quella seduta, che presuppone molta concentrazione. Subito l’espressione del viso si fa più attenta e seriosa, come di chi debba formulare un concetto importante e approfondito.
«Picasso, Duchamp, Warhol, Pistoletto, come molti altri artisti, con il loro accumulare hanno creato vere e proprie opere e installazioni. Si sono apparentemente liberati dei loro oggetti, ma allo stesso tempo se ne sono di nuovo appropriati. Ora, volendo approfondire un pensiero precedente, penso... che l’opera d’arte, nata da materiale riciclato, assemblato, riutilizzato e nobilitato, viva una sua vita autonoma… e gli oggetti che la compongono hanno perso la loro identità, la loro funzione originale, sono diventati promotori di altre storie, per trasformarsi in una specie di “diffusori d’arte”».
Sandra si meraviglia per l’acutezza delle sue osservazioni, che purtroppo si dissociano dal suo agire comportamentale. 
«Io, cosa faccio?», si chiede smarrita. E pensa che tutti, ognuno nel proprio ambito di lavoro, possano essere dei potenziali creativi, anche se differenti nelle intenzioni e modalità.
Allora considera che se lei non ha alcun interesse o predisposizione a comporre opere d’arte, significa che la sua incapacità di buttar via oggetti, abiti, libri, giornali… - a meno che non sia provocata da un vero e proprio disturbo patologico - possa essere legata a pigrizia metodica-abitudinale, alla poca voglia di rinnovarsi, rigenerarsi.
Forse una necessità legata a un bisogno… a un senso di possesso?
A questi interrogativi, Sandra tenta di reagire alla sua innata pigrizia.
Si alza e, dopo alcuni passi, avverte che le intenzioni si tramutano in altre  riguardanti, purtroppo, l’organizzazione quotidiana. 
«Niente da fare. La voglia di smaltimento è già passata? Dovrò prima o poi superare questo muro di resistenza ostinata. Superare soprattutto la difficoltà di discernere l’utilità/inutilità di oggetti e qualunque altra cosa. Perché ostinarmi a condurre una vita dispersiva, quasi asettica? Il mio cervello è lucido, capace di analizzare, considerare, fare dei ragionamenti logici e non affrettati. Posso ancora farcela?».
E ripensa a quel formicolio persistente…
 




Il sovraffollamento oggettuale della vita, anzi, dell’habitat promosso a locus semantico esclusivo della vicenda articolata nel racconto di Luisa Sanfilippo, procede con un andante simpaticamente fitto e intervallato nell’area logica: potrebbe esortare una lettura di stampo psicocritico, come la stessa scrittrice, tra le righe, sembra consigliare. Ne sono una fedele sostenitrice, eppure, questa volta, vorrei seguire l’impulso di interpretare la trama e l’intreccio di Saturazione sulla scia dell’analisi strutturale di Roland Barthes, là dove accenna alla natura gerarchica dei piani semiotici del senso nelle storie brevi. La nostra Sandra, tra roba inanimata, oggetti ed entità personalizzate o rivissute in misura artistica, aggregate, combinate o in singola unità, è alla ricerca di una scala immaginifica di importanza sostanziale del vivere, nel suo spazio e tempo. Infatti, «Io, cosa faccio? », si chiede smarrita, e «pensa che tutti, ognuno nel proprio ambito di lavoro, possano essere dei potenziali creativi, anche se differenti nelle intenzioni e modalità». In chiave analoga - ma a suggerirlo è lo strutturalista francese - con lo strumento del linguaggio narrativo l’autrice non gestisce nello stile una semplice somma di proposizioni, ma classifica la massa enorme di elementi in virtù della prospettiva di un esplicare elaborato. Del resto, leggiamo: «Picasso, Duchamp, Warhol, Pistoletto, come molti altri artisti, con il loro accumulare hanno creato vere e proprie opere e installazioni».

Tuttavia, nonostante il «formicolio persistente (…) insinuato nella mente» della perplessa protagonista, alla fine la giovane «si alza e, dopo alcuni passi, avverte che le intenzioni si tramutano in altre riguardanti, purtroppo, l’organizzazione quotidiana. “Niente da fare. La voglia di smaltimento è già passata?”». Ebbene, allora accogliamo l’enunciato di Barthes quando afferma: «Una frase, com’è noto, può essere descritta, linguisticamente, a diversi livelli (fonetico, fonologico, grammaticale, contestuale): questi livelli sono in rapporto gerarchico e poiché, se ciascuno ha le proprie unità e le proprie correlazioni, che rendono necessarie per ciascuno di essi una descrizione indipendente, nessun livello può produrre senso da solo». Ebbene, per quanto mi coinvolge, inviterei la protagonista a non disperarsi per «la difficoltà di discernere l’utilità/inutilità di oggetti e qualunque altra cosa», con l’effetto di separarle tra di loro, eliminarne una, privilegiandone una ulteriore. 
Nell’inquietudine di Sandra, e a fronte di tanta “offerta”, potrebbe emergere l’ostacolo a rintracciare qualcosa di desiderato. A tale proposito, ancora Barthes ricorda La lettera rubata di Edgar Allan Poe (The Purloined Letter, short story uscita sulla rivista The Chamber's Journal nel 1845) - argomento di studi di Sigmund Freud - rammentando come l’autore statunitense, originario di Boston, abbia esaminato con acume il fallimento di un prefetto di polizia, impotente a recuperare l’epistola introvabile: «Le sue investigazioni erano perfette, ci dice, “nell’ambito della sua specializzazione”: il prefetto non ometteva alcun luogo, “saturava” interamente il livello della “perquisizione”, ma per trovare la lettera, protetta dalla sua evidenza, bisognava passare a un altro livello, sostituire la pertinenza del ricettatore a quella del poliziotto».
Da parte nostra, per evocare in una referenza adeguata il messaggio di Luisa Sanfilippo - e semmai, in via utopica, aiutare Sandra ad accettare o rifiutare l’ordine-disordine della casa, dell’esistenza - sarà comunque opportuno visitare il brano nella successione del narrato e nella verticalità delle notizie veicolate: le quali, appunto, non sono custodite nell’epilogo del racconto, piuttosto lo attraversano. Tentando, ora lo sappiamo, di «superare lo scoglio dell’indecisione». (c.b.)




 
 










 

 

 






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