lunedì 12 marzo 2018


Marco CAMERINI – “Il giunco mormorante” di Nina Berberova
 


 
Classico esempio di long seller, il romanzo Il giunco mormorante della pietroburghese Nina Berberova è nelle librerie italiane da quasi trent’anni e con oltre venti edizioni. La recensione di Marco Camerini.
 

Non era necessaria la recente inchiesta del britannico “The Guardian” – secondo la quale, negli ultimi dieci anni, l’ampiezza dei libri è aumentata del 25% giungendo a una media di 400 pagine – per confermare la sensazione che sempre più, oggi, gli scrittori tendano al romanzo lungo, inclusivo, “massimalista”, secondo la felice definizione di Stefano Ercolino. E l’ultimo del redivivo Paul Auster, 4321 (Einaudi), di pagine ne conta 940. Il giunco mormorante di Nina Berberova non arriva a 70, non è (colpevolmente) troppo conosciuto né appena uscito (Adelphi 1990, 2015 ventunesima ed.), ma con un’intensità lirica essenziale e struggente, tutta affidata alla miracolosa sintesi di uno stile introspettivo impeccabile, riesce a delineare ellitticamente una vicenda di amore assoluto, di ineluttabile autocoscienza dei limiti borghesi dell’esistenza, di scoperta dolorosa e, alla fine, appagante di una vita “altra” che salva chi la sa e vuole (ri)conoscere. Non molti.
Questo gioiello nascosto di Nina Nikolaevna Berberova (1901-1993), scritto nel 1958, è una preziosa sinfonia in tre tempi, interpretata da pochi personaggi che si muovono sullo sfondo – vago e insieme definito da puntuali marche temporali (“2 settembre 1939”, “sette lunghi anni di separazione”, “la guerra finì”) – degli ambienti europei frequentati dai facoltosi transfughi russi della Rivoluzione, loro malgrado incapaci di rimuovere la favolosa, ancestrale, mitizzata Terra Madre: la voce narrante femminile (evidentemente autobiografica), l’amante di padre pietroburghese e sangue svedese – che sembra gelarne gli empiti, impedendole di ricambiare un affetto viscerale e definitivo – l’accorta moglie “gigantessa bionda dal volto di angelo paffuto, misto di Rubens e Bellini”, un accademico dissidente membro di fama internazionale dell’intellighenzia russa ed emblema della sua eccellenza culturale, di cui la protagonista curerà le ambite memorie.
Tre i momenti narrativi: la separazione, appassionata e carica di promesse, il nuovo incontro – in cui solo lei sarà pronta a compromettersi ancora, pur nella mutata condizione sentimentale di lui – il definitivo abbandono di un “giunco” che, pascalianamente “pulsante, mormora, protesta” e rinuncia con dignità all’umiliazione del compromesso e dell’ipocrisia. Perde l’uomo, vince la donna che sceglie di non rinnegare la sua personale “no man’s land”, zona franca in cui si vive nella libertà e nel mistero, da soli o in compagnia, senza remore né pregiudizi. Quando abbiamo la fortuna e il coraggio di abitarla, ci fa rischiare tutto di noi senza calcolare le incognite, scegliendo di ascoltare solo la voce delle Emozioni, delle pulsioni più intime e inconfessate, dei sentimenti più istintivi e sinceri per metterli in gioco gratuitamente e provarci ancora se, come è facile accada, si perde.
 
 
Una sorta di seconda vita “invisa all’Inquisizione e agli Stati totalitari” (sfugge ad ogni controllo, induce a gesti clamorosi/imprevedibili) e, più modestamente, ai mediocri, agli arroganti, ai timidi – alla fine son uguali – che privilegiano le consolatorie sicurezze dell’esistenza comune. Del resto – così recita Silentium, la lirica più nota di Fëdor Tjutčev cui appartengono i versi del “giunco mormorante” che aprono un testo assolutamente poetico nella struttura – “Può palesarsi il cuore mai?/ Un altro potrà mai capirti?/ Intenderà che tu vivi?/ Pensiero espresso è già menzogna/ Sappi in te stesso vivere soltanto” (trad. di T. Landolfi).
Altrettante le città che, parallelamente, scandiscono gli eventi, ciascuna magicamente legata a una cifra cromatica. Il verde scuro della “buia, morta Parigi” 1939, con i suoi “lampioni azzurri, i libri, le lapidi di marmo, la sofferenza russa”. Nel suo spesso vetro “che aveva imprigionato tutti”, vivono – silenziosi e impalpabili come spettri timorosi (“fantasmi davanti, fantasmi alle spalle, noi due stessi fantasmi”) – gli amanti capaci solo, prima dell’addio, di barattare sguardi, promesse, allusioni reticenti, gesti impercettibili tanto vicini alle atmosfere minimaliste delle liriche di Anna Achmatova: “una porta accostata, l’alone giallo di una lampada, il guanto di sinistra infilato nella mano destra[1]” e “un amore disperato per chi mi impediva di costruire il mio destino” (pp. 54-55). Il grigio (assolutamente simbolico) della “austera e granitica” Stoccolma, dove “l’uva non si trova” e il ritrovarsi svela angosciosamente chi dei due ha scelto la normalità invece dell’infrazione.
Sino al rosa pallido di una Venezia aerea e leggera come un merletto, dal “ritmo rallentato e sottomarino” che dissolve “l’irrimediabile in gioiosa tristezza”, il pesante nel leggero miracolo di “chiese che si sciolgono nell’oscurità” e ipnotiche piazzette senza nome, mussole alle finestre e iridescenti cristalli di un crepuscolare interno lagunare. A lei spetta il ruolo di sancire spazialmente la fine di un legame che la protagonista non intende sacrificare all’incoerenza e al perbenismo…Venezia che “quando si parte scompare in un attimo, non agita a destra e sinistra il capo come fanno le altre città quando le lasci. Svanisce in un solo istante, come se non esistesse, come non fosse mai esistita”. Sì, come la Procida di Arturo. 

Nina Nikolaevna Berberova
Il giunco mormorante (Mysliaščij trostnik, 1958)
traduzione Donatella Sant’Elia
Milano, Adelphi, 1990, 22ª ediz., pp. 79, € 10,00

 



 




[1] Sorprendenti le affinità fra questo famoso verso della Poesia dell’ultimo incontro e il passo a p. 47 del Giunco mormorante: “La mia mano sinistra è appoggiata sulla tovaglia, la destra sfiora il bicchiere…”.

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