Marco CAMERINI – “Il giunco mormorante”
di Nina Berberova
Classico esempio di long seller, il romanzo Il
giunco mormorante della pietroburghese Nina Berberova è nelle librerie
italiane da quasi trent’anni e con oltre venti edizioni. La recensione di Marco
Camerini.
Non era necessaria la recente inchiesta del britannico
“The Guardian” – secondo la quale, negli ultimi dieci anni, l’ampiezza dei
libri è aumentata del 25% giungendo a una media di 400 pagine – per confermare
la sensazione che sempre più, oggi, gli scrittori tendano al romanzo lungo,
inclusivo, “massimalista”, secondo la felice definizione di Stefano Ercolino. E
l’ultimo del redivivo Paul Auster, 4321
(Einaudi), di pagine ne conta 940. Il giunco mormorante di Nina
Berberova non arriva a 70, non è (colpevolmente) troppo conosciuto né appena
uscito (Adelphi 1990, 2015 ventunesima ed.), ma con un’intensità lirica
essenziale e struggente, tutta affidata alla miracolosa sintesi di uno stile
introspettivo impeccabile, riesce a delineare ellitticamente una vicenda di
amore assoluto, di ineluttabile autocoscienza dei limiti borghesi
dell’esistenza, di scoperta dolorosa e, alla fine, appagante di una vita
“altra” che salva chi la sa e vuole (ri)conoscere. Non molti.
Questo gioiello nascosto di Nina Nikolaevna Berberova (1901-1993),
scritto nel 1958, è una preziosa sinfonia in tre tempi, interpretata da pochi
personaggi che si muovono sullo sfondo – vago e insieme definito da puntuali
marche temporali (“2 settembre 1939”, “sette lunghi anni di separazione”, “la
guerra finì”) – degli ambienti europei frequentati dai facoltosi transfughi
russi della Rivoluzione, loro malgrado incapaci di rimuovere la favolosa,
ancestrale, mitizzata Terra Madre: la voce narrante femminile (evidentemente
autobiografica), l’amante di padre pietroburghese e sangue svedese – che sembra
gelarne gli empiti, impedendole di ricambiare un affetto viscerale e definitivo
– l’accorta moglie “gigantessa bionda dal volto di angelo paffuto, misto di
Rubens e Bellini”, un accademico dissidente membro di fama internazionale
dell’intellighenzia russa ed emblema della sua eccellenza culturale, di cui la
protagonista curerà le ambite memorie.
Tre i momenti narrativi: la separazione, appassionata e
carica di promesse, il nuovo incontro – in cui solo lei sarà pronta a
compromettersi ancora, pur nella mutata condizione sentimentale di lui – il
definitivo abbandono di un “giunco” che, pascalianamente “pulsante, mormora,
protesta” e rinuncia con dignità all’umiliazione del compromesso e
dell’ipocrisia. Perde l’uomo, vince la donna che sceglie di non rinnegare la
sua personale “no man’s land”, zona franca in cui si vive nella libertà e nel
mistero, da soli o in compagnia, senza remore né pregiudizi. Quando abbiamo la
fortuna e il coraggio di abitarla, ci fa rischiare tutto di noi senza calcolare
le incognite, scegliendo di ascoltare solo la voce delle Emozioni, delle
pulsioni più intime e inconfessate, dei sentimenti più istintivi e sinceri per
metterli in gioco gratuitamente e provarci ancora se, come è facile accada, si
perde.
Una sorta di seconda vita “invisa all’Inquisizione e
agli Stati totalitari” (sfugge ad ogni controllo, induce a gesti
clamorosi/imprevedibili) e, più modestamente, ai mediocri, agli arroganti, ai
timidi – alla fine son uguali – che privilegiano le consolatorie sicurezze
dell’esistenza comune. Del resto – così recita Silentium, la lirica più nota di Fëdor Tjutčev cui appartengono i
versi del “giunco mormorante” che aprono un testo assolutamente poetico nella
struttura – “Può palesarsi il cuore mai?/ Un altro potrà mai capirti?/
Intenderà che tu vivi?/ Pensiero espresso è già menzogna/ Sappi in te stesso
vivere soltanto” (trad. di T. Landolfi).
Altrettante le città che, parallelamente, scandiscono
gli eventi, ciascuna magicamente legata a una cifra cromatica. Il verde scuro
della “buia, morta Parigi” 1939, con i suoi “lampioni azzurri, i libri, le
lapidi di marmo, la sofferenza russa”. Nel suo spesso vetro “che aveva
imprigionato tutti”, vivono – silenziosi e impalpabili come spettri timorosi
(“fantasmi davanti, fantasmi alle spalle, noi due stessi fantasmi”) – gli
amanti capaci solo, prima dell’addio, di barattare sguardi, promesse, allusioni
reticenti, gesti impercettibili tanto vicini alle atmosfere minimaliste delle
liriche di Anna Achmatova: “una porta accostata, l’alone giallo di una lampada,
il guanto di sinistra infilato nella mano destra[1]” e
“un amore disperato per chi mi impediva di costruire il mio destino” (pp.
54-55). Il grigio (assolutamente simbolico) della “austera e granitica”
Stoccolma, dove “l’uva non si trova” e il ritrovarsi svela angosciosamente chi dei
due ha scelto la normalità invece dell’infrazione.
Sino al rosa pallido di una Venezia aerea e leggera
come un merletto, dal “ritmo rallentato e sottomarino” che dissolve “l’irrimediabile
in gioiosa tristezza”, il pesante nel leggero miracolo di “chiese che si
sciolgono nell’oscurità” e ipnotiche piazzette senza nome, mussole alle
finestre e iridescenti cristalli di un crepuscolare interno lagunare. A lei spetta
il ruolo di sancire spazialmente la fine di un legame che la protagonista non
intende sacrificare all’incoerenza e al perbenismo…Venezia che “quando si parte
scompare in un attimo, non agita a destra e sinistra il capo come fanno le
altre città quando le lasci. Svanisce in un solo istante, come se non
esistesse, come non fosse mai esistita”. Sì, come la Procida di Arturo.
Nina Nikolaevna Berberova
Il giunco mormorante (Mysliaščij
trostnik, 1958)
traduzione Donatella
Sant’Elia
Milano, Adelphi, 1990, 22ª
ediz., pp. 79, € 10,00
[1] Sorprendenti le affinità
fra questo famoso verso della Poesia
dell’ultimo incontro e il passo a p. 47 del Giunco mormorante: “La mia mano sinistra è appoggiata sulla
tovaglia, la destra sfiora il bicchiere…”.
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